“Materada” di Fulvio Tomizza

“ Poi venne la guerra , io partii militare, mio fratello anche; dopo venne quest’altra malora e il vecchio diventò meno trattabile e più fastidioso di prima perché la riforma agraria gli aveva tolto la terra dei Chersi. “ Ridete pure”, ci fece una sera ch’eravamo di buonavoglia e si scherzava non so su cosa, “ma quella era terra vostra”.
La guerra è la seconda guerra mondiale a cui ha partecipato il protagonista del romanzo, il piccolo proprietario Francesco Coslovic, dal nome slavo ma di etnia italiana per parte di madre ; la malora, che s’è aggiunta alla prima, è la prosecuzione in tempo di pace della guerra non guerreggiata, ma ugualmente violenta, della “ Liberazione” dell’Istria dagli Italiani ad opera dei croati- sloveni; la riforma agraria, in nome del principio socialista della collettivizzazione dei mezzi di produzione, fu appunto uno degli strumenti attraverso cui si attuò, dopo l’esperimento presto fallito dei kolkoz e la successiva redistribuzione della terra ai coloni, l’espulsione dei piccoli e grandi proprietari italiani; il vecchio, lo zio dei due fratelli, croato per parte sua, sebbene parzialmente espropriato, ha mantenuto il resto della sua proprietà che si rifiuta di condividere con i figli di suo fratello.
La terra dunque, e la contesa per la terra, questo il fulcro del romanzo, che prende il nome da Materada, il villaggio dell’Istria nord occidentale, tra Buje e Umago, dov’è nato Tomizza. Lo scrittore apparteneva a una famiglia di possidenti espropriati e costretti all’esilio ed è sempre rimasto fedele alle sue origini. Se nel suo libro più famoso, “ La miglior vita”, premio strega 1977, approda a una composizione irenica del conflitto tra slavi e italiani, “ genti differenti solo nel parlare”, qui, nella sua opera prima del 1960, siamo ancora immersi nel clima incandescente degli anni compresi tra il 1945 e il 1954, tra la fine della guerra e il Memorandum di Londra che assegna l’Istria alla Jugoslavia di Tito.

Siamo appunto nell’ottobre del ’54, quando a seguito del Memorandum cadono le residue speranze degli italiani rimasti in quella porzione d’Istria, la cosiddetta zona B del Territorio Libero di Trieste in cui è compresa Materada: tutta l’Istria è perduta e non resta che l’atroce dilemma se abbandonare tutto, le case, i campi sopravvissuti alla riforma, gli animali o restare, abbarbicati alla terra degli avi, con negli occhi dieci anni di vessazioni, bastonature, morti violente, discriminazioni.
“ La partenza di Bortolo da Giurizzani[ frazione di Materada] fu per noi come quando una pecora riesce a trovare uno spiraglio tra la siepe per buttarsi nell’altro campo e allora le altre perdono la testa e lasciano lì tutto per correrle dietro. Le cittadine dell’Istria si stavano svuotando giorno per giorno, specie quelle della costa, e per noi era ormai diventata un’abitudine vedere in quei giorni i soliti camion traballanti di povere masserizie lasciare Umago e Buje e dirigersi alla volta di Trieste. Ma chi avrebbe mai pensato che alla fine si sarebbe mossa anche la campagna? “
Francesco, Franz, potrebbe rimanere: aggregatosi dopo l’8 settembre ai partigiani slavi, gode di qualche considerazione presso gli amministratori locali, ma ha commesso un grave errore ai loro occhi: s’è rifiutato di sottoscrivere un documento d’accusa contro lo zio che gli avrebbe aperto le porte per il possesso dell’eredità contesa. Rinuncia alla terra: “ La terra non è tutto, Berto[ il fratello]…abbiamo da pensare ai nostri figli, noi due; e loro che istruzione hanno da avere rimanendo o entrando in qualche skupçina[ cooperativa] o che so io? Ha ragione barba Nin: noi non siamo per questo regime. Forse ci vuole altro fegato…hai visto, volevano che firmassi quella carta per mettere in disgrazia un uomo.”
Barba Nin è il vecchio che gli aveva consigliato di partire: “ Va a cercare la tua fortuna. Qua essa ti ha lasciato; e tu corrile dietro”.
“ Quella notte mi svegliò il tuono. Non che avessi dormito molto; mi ero appena appisolato e al risveglio subito mi presero i pensieri di poco prima. Una baracca – pensavo – due pasti al giorno, il latte al mattino, un po’ di sussidio ogni mese. Le scuole per mia figlia. Vigi mandarlo magari a qualche corso per falegname, meccanico o muratore. E poi partire per l’Australia, l’America, o il Canada. Diventare gente che parla un’altra lingua e mangia e vive differente.”
E poi la partenza dell’amico: “ Il camion era già in moto, bisognava affrettarsi. La casa fu svuotata di quelle poche cose che erano servite per il pranzo. Si vestirono in fretta e cominciarono a salutare. Le solite lacrime, smorfie, addii…Poi serrò gli scuri, chiuse la porta, fece per buttare la chiave nella buca della calce dove sempre stagnava un po’ d’acqua morta, ma sua moglie gliela prese fuori di mano e se la mise nel seno.”
S’è detto della terra, la vera protagonista. La terra che non è solo suolo, su cui generazioni si sono spaccate la schiena, per cui son scoppiate contese, tra uomini e uomini, tra stati e stati…
“Guardavo le tombe, e con tutta quell’erba parevano cumuli di terra sollevatisi sotto la schiena di grosse talpe. E pensavo ai nostri morti dalle orecchie e le nari piene di basilico; pensavo a tanta altra gente che era nata e cresciuta e poi finita là con un rosario e un libro nero tra le mani, e di cui ora non restava che ossa e ossa, le une sulle altre, e libri e rosari sparsi tra la terra. Mezzo ettaro di quella terra senza pietre era bastata per tutti; poteva bastare anche per noi e i nostri figli. < Addio ai nostri morti> disse forte una donna.”