“Bora” di Anna Maria Mori e Nelida Milani

“ Pola: il computer sottolinea il nome in rosso, per avvertire che ci dev’essere un errore. Strano, fino a cinquant’anni fa era quel che si dice una <ridente cittadina> che ha dato i natali ,tra gli altri a musicisti come Luigi Dallapiccola e Antonio Smareglia, trenta-quarantamila abitanti, un porto militare di primaria importanza, e l’eleganza straordinaria di vistosi e bellissimi resti romani: oggi, più niente, a tal punto è stata cancellata dalla storia e dalla memoria collettiva, che il computer, al suo nome, si innervosisce, si inceppa, e segnala errore. Proviamo con la nuova identità: Pula. Ecco, il computer accetta, si è allineato anche lui con la decisione del trattato di Parigi del 10 febbraio 1947, riconfermato dal Memorandum di Londra di qualche anno dopo. Per il computer, e quindi per la collettività, Pola non esiste, non c’è più, addirittura non è mai esistita: c’è Pula, Istria, Croatia.”
“Pola è diventata Pula. Le lettere non partono e non arrivano se sulle buste non si scrive Pula. Pola cancellata dalla faccia della terra. Il nome era un simbolo, e quando i simboli cadono, nulla è più come prima.”(1)
Sono le due voci a distanza che danno vita a “Bora. Istria, il vento dell’esilio”(2), il libro a quattro mani di Anna Maria Mori e Nelida Milani: giornalista, trapiantata a Roma, la prima, andata via dalla città istriana a 11 anni, in quell’esodo che coinvolse, tra l’inverno del 1946 e l’anno successivo, circa 30.000 polesani, la quasi totalità della popolazione; docente di Linguistica all’università della stessa città, che non ha mai abbandonato, la seconda.

L’imbarco sul “Toscana”
Gli “andati” e i “rimasti”, all’interno di quel fenomeno traumatico che vide l’espulsione(perché di questo si tratta quando la scelta è forzosa) di circa 300.000 italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia. Queste, con tutta l’approssimazione ma anche la sostenibilità rivendicata dalla storiografia italiana, le cifre della scomparsa di un 90% della componente italiana dai luoghi di “ quella che storicamente veniva considerata l’italianità adriatica. Nel lungo continuum della storia alto – adriatica, c’è dunque – scrive Raoul Pupo – un punto che segna una rottura storica: un momento di svolta, in cui una delle componenti autoctone insediate sul territorio, quella di ascendenza romanza, scompare.” (3): un avvenimento epocale, che rientra a buon diritto tra i trasferimenti forzati di popolazioni di cui il ‘900 è stato testimone. Due le tappe principali di quest’esodo complessivo: la prima in seguito al Trattato di pace di Parigi del 10 Febbraio 1947, la seconda dopo il Memorandum di Londra del 26 ottobre 1954.
Il dramma di Pola si consuma prima di quest’ultima data, compreso com’è tra il maggio1945, i “ quaranta giorni” dell’occupazione titina, e il febbraio del 1947, la data del Trattato di pace che assegna definitivamente la città alla Jugoslavia. Ma già prima, quando nell’inverno del’46 s’erano diffuse le voci in tal senso, ha inizio l”esodo preventivo” degli italiani: “ una città di pietra – come scrive Nelida – che parte per mare”. Agisce il ricordo delle violenze subite : “ Ogni luogo, ogni casa – qui Anna Maria attinge alle memorie paterne – aveva la sua vittima; ognuno ha sentito, una notte o l’altra i colpi di quelli che bussavano alla porta per portare via qualcuno, e i pianti delle donne…cominciarono a far sparire le persone sin dalle prime ore, le arrestavano e le portavano via, anche di giorno, sotto gli occhi di tutti, in piazza.” Agisce, e fu per molti la spinta decisiva, il recente terribile ricordo della strage di Vergarolla, quando il 18 agosto si contarono 65 morti(4), oltre a decine di feriti, in una spiaggia affollata di bagnanti, a causa dell’esplosione di alcune mine di profondità accatastate, perché ritenute inerti, sul lido. La commissione alleata ne accertò l’origine dolosa ma non riuscì a risalire agli autori. Per i polesani non ci furono dubbi.

Le masserizie accatastate sul porto
Anna Maria e Nelida si richiamano e si rispondono in un dialogo non sempre facile: se in chi è “andato”, pur nell’acuta sensazione della cesura provocata dall’abbandono, prevale la nostalgia per l’Eden perduto, in chi è “rimasto” perdura la rabbia accumulata nei lunghi anni della “sopportazione” in un ambiente divenuto ostile:
“ Si può vivere senza la bambina o il bambino che si è stati, poco o tanto tempo fa, senza i suoi luoghi, senza i suoi ricordi di ambiente, volti e parole, senza le certezze conquistate contemporaneamente all’uso della parola, prima, e poi della parola scritta, senza il Duomo scuro della sua prima comunione con il vestito di pizzo, quasi da sposa, senza il rito dei crostoli e delle pinze di Pasqua, senza il gran ridere nella sala da pranzo col parquet che la memoria rimanda enorme..? ”
“ Che ne sanno gli esuli del nostro<esilio interno>, garantito unicamente dallo spazio casalingo? non immaginano quanto ci sia costato, di amarezze da patire, di orgoglio da salvare, di conflitti da superare, e di tensioni, di contraddizioni, di accanimento, di sofferenza. E di coraggio…Non altro abbiamo fermamente voluto, se non vivere in modo conforme alla nostra natura, dando espressione alle nostre abitudini, alle nostre tradizioni, parlando la lingua dei nostri antenati. “

L’anfiteatro
La lingua:
“ Il papà aveva conosciuto la mamma nell’isola di lei, Lussino…Lei, istriana. Italiana. Lui toscano, fiorentino, parlava un italiano purissimo…lei e la sorella, come la loro madre, più che l’italiano parlavano il dialetto, quello che oggi si chiama istro-veneto, simile ma non uguale a quello che si parla a Trieste, diversissimo da quello, più che detto, cantato, che si può ascoltare a Venezia…Il croato era la lingua, occasionale, delle malizie, degli scherzi…Strano, di una lingua che sarebbe stata vissuta poco dopo come quella della violenza, dell’aggressione e della paura, allora si conoscevano e si utilizzavano quasi esclusivamente i diminuitivi e i vezzeggiativi, cuciza per dire casa, casetta, ribich o ribiza per dire pesce, che in croato diventava subito pesciolino, liepa per carezzare con le parole un’amica dicendole <bella, bella mia>…”
“ A mano a mano le cose e le case, le insegne e le vetrine, le edicole e i cartelloni perdono i loro nomi, come quando a una persona cadono i capelli e, costretta a mettersi la parrucca, non la riconosci più. Passiamo attraverso una foresta di simboli che ci osservano con sguardi non familiari e davanti a noi si apre la voragine dell’interpretazione: cosa vorrà dire mlijecni? e lijekarna? E poduzece?e stanica? Un temporale di messaggi mi aggredì agendo sui miei centri nervosi sotterranei e mi sentii intrappolata tra Scilla e Cariddi quando la signora Meri mi spiegò che sotto l’Italia la stessa cosa la facevano gli italiani agli slavi: modificavano i nomi croati, li italianizzavano, cambiavano i nomi dei loro paesi, e sostituivano perfino quelli dei morti sulle tombe.“
La lingua, la scuola:
“ Io devo tornare a scuola. Ho in tasca la mia promozione alla seconda media, però siamo già in primavera e, tra la prima e la seconda parte dell’esodo, non ho potuto frequentare la prima…Le mie nuove compagne di classe declinano rosa rosae già da qualche mese. Io non so niente: piombo nell’aula con le grandi finestre sul podere ad alberi da frutto, e mi sento un’estranea a tutto, sia alle bambine sia al programma che si sta svolgendo. Capisco solo che se voglio farmi accettare e andare avanti, devo essere brava: rosa rosae…rosarum rosis…”
“ Siamo rimasti in pochi in classe. Qualche figlio di comunista passa alla scuola croata. Tutto è confuso, non si può mai sapere da chi bisogna guardarsi, sei tradito all’improvviso, perfino da dentro la classe. Così se n’è andato Aldo: suo padre era spietato con i borghesi della sua stessa nazionalità, lui e altri bravi pinocchi di partito hanno già messo i loro figli alla scuola croata. Molti di loro hanno scoperto le loro radici intricate e plurali, ed essendosi trovati nell’albero genealogico un nonno o una bisnonna slavi, optano con la coscienza a posto per la scuola croata. Scelgono le radici che gli fanno più comodo. Si scoprono facilmente croati, come sotto il fascismo si erano scoperti facilmente italiani…Con la scuola che abbiamo avuto noi, se non siamo cresciuti del tutto stupidi è un miracolo, dovuto soprattutto ai nostri insegnanti…Non fu così con molti dei nostri fratelli e sorelle minori, messi nella scuola croata per ordine del potere popolare. Essendo stati sottoposti allo speciale trattamento di cancellazione dell’io, durato molti anni, e la cui collaudata efficacia escludeva ogni rinascita d’identità, quando ne uscivano erano croati e i nomi delle pagelle lo confermavano: Dijego, Klavdijo, Anamarija, Lucija, Enco, Ecijo ecc.”
La partenza, la restanza:
“ Si parte. Io non ho capito bene perché, nessuno me lo ha spiegato per bene fino in fondo: i bambini non vanno spaventati con troppe delucidazioni che li mettano a tu per tu con l’orrore del reale… Si parte. La mamma, la zia, le nonne, tutti a impacchettare i bicchieri di cristallo con i gigli intagliati, leggeri come bolle di sapone, i libri di papà…Si parte. E il gatto nero che avevamo chiamato Tito, per addomesticare il Pericolo rappresentato da un maresciallo con troppe medaglie sulla divisa bianca, e per esorcizzare le nostre paure? <Quello, purtroppo, resta, non possiamo portarlo con noi, perché non sappiamo dove andremo a stare, e se e quando, riavremo una casa>; lui resta, insieme alla casa, che non possiamo portare, e insieme al giardino con i bulbi olandesi sottoterra…Si parte. I mobili se ne vanno per conto loro…la gente si imbarcava sul Toscana, che faceva la spola tra Pola e Trieste.”

Pola oggi
“ Anch’io un giorno sarei partita su quella nave, che avrebbe reso concrete le mie scorrerie fantastiche. Perché nonna non è andata in Italia come le sue figliole? Perché è rimasta a Pola? Papà non volle andarsene per via della barca e della pesca. Nonna, anzitutto, per la nostra casa, il suo regno, fuori del quale tutto il vasto mondo era solo un’appendice insignificante, un regno popolato da figli, figlie, nipoti e da una folla di animali: tacchini, oche, anatre, galline, galli, armente, asini, maiali…Ricordo il suono dei martelli che battevano sui chiodi…Via via il Toscana aveva infornato tutti polesani: le famiglie bene, molti professionisti, il farmacista, l’ufficiale che ha sposato la cecoslovacca, il dentista che ha sposato l’ungherese, il cantante che ha sposato la slovena, il professore d’inglese che ha sposato l’italiana…Per noi che restavamo, era l’inizio di una nuova era. Dopo, infatti, le cose non sarebbero mai più state uguali né facili.”
Si è parlato, a proposito degli “andati” e dei “rimasti”, di un “esilio parallelo”. E certamente queste due voci ci dicono molto sulle difficoltà incontrate dagli uni e dagli altri; sull’accoglienza spesso ostile cui andarono incontro gli esuli in Italia, sulla difficile convivenza con l’etnia dominante con cui chi rimase dovette fare i conti. Ma è veramente difficile, a lettura finita, porre sullo stesso piano, come suggerisce l’immagine delle rette parallele, le due vicende esistenziali. Forse è più giusto parlare di due facce della stessa medaglia: comune l’origine, l’esito capovolto.
“ Perché ve ne siete andati? E voi, perché siete rimasti?…Tu, voi, forse proprio nella speranza o addirittura nella convinzione di preservare il passato, continuando ad abitare nelle stesse case e nella stessa città, lo avete perduto. Persino più di noi. È meglio vivere la propria infanzia come guardandola in una cartolina ingiallita, che continuare a viverci, in quella cartolina, di cui qualcuno via via ha cambiato i colori, cancellato le forme, le linee, i contorni”.
“Parte anche chi resta. Perché di questo si tratta. Sono anch’io il resto della mia famiglia e dei miei amici, la loro sottrazione. Quando un membro della famiglia se ne va, gli altri condividono con lui gli effetti negativi della separazione. La perdita di un padre, di un figlio o di un fratello è risentita da tutta la comunità. La disintegrazione della famiglia porta alla distruzione della comunità, poiché queste linee di fuga trascinano via i giovani in tutte le direzioni. Insieme a loro si perdono parole e pietre, l’odore di esistenza si estingue sotto palate di silenzio. L’ultima pagina è anche la prima: oggi come ieri.”
(1)- Dopo la dissoluzione della Jugoslavia la città è ufficialmente bilingue e il nome Pola è stato ripristinato accanto a quello di Pula.
(2) – Del 1998 la prima edizione per Frassinelli. Ripubblicato da Marsilio nel 2018.
(3)- Raoul Pupo, L’esodo dei giuliano-dalmati, in Dall’impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto-adriatica, Bollati Boringhieri, 2009.
(4) – Sul numero dei morti le cifre non sono concordi: si va dai 65 accertati ai 110 ipotizzati(tra dispersi e irriconoscibili).
Qualche suggerimento per chi volesse approfondire:
Anna Maria Mori ha pubblicato sullo stesso argomento Nata in Istria, Rizzoli, 2006 e prodotto due documentari: Istria 1943 – 1993.cinquant’anni di solitudine, 1993 e Istria, il diritto alla memoria, 1997(su Youtube);
Nelida Milani ha pubblicato La valigia di cartone, Sellerio, 1991.
Sull’esodo da Pola: La città dolente, film di Maurice Bonnard, 1949 ( Su Youtube).
Su Vergarolla: L’ultima spiaggia. Pola fra la strage di Vergarolla e l’esodo, documentario di Alessandro Quadretti e Domenico Guzzo, 2016.