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“Sembianze” di Francesco Scaramozzino, un’ironica autobiografia in versi

      Benché le quattro sezioni che lo compongono (rispettivamente intitolate:  Stili, Dadi, Mutazioni ed Hegel) constino di autonomi testi di varabile estensione e per la maggior parte dotati di propri titoli, queste Sembianze di Francesco Scaramozzino (Joker Edizioni) va letto come un’ininterrotta, lucida, ironica autobiografia del personaggio che vi dice “io”.

     Vi si narri, infatti, in prima persona, o proiettandosi negli altri personaggi (di solito: animali) delle paraboline inventate dalle trame versiche, tale personaggio-“io” rappresenta sempre e soltanto se stesso e i pilastri della propria concezione del mondo. Con la peculiarità che tanto di sé quanto del mondo – del suo mondo –, egli fornisce una rappresentazione di continuo deformata da un sottile ghigno, ben mistificato sulle labbra e nell’atteggiamento dell’uomo dimesso, disilluso e reso inetto dall’enorme peso di un’esistenza, di cui gli sfugge il senso, che lo spaura e lo schiaccia.

     Il motivo di fondo affiorante dalla raccolta, non a caso, sembra attenere al racconto o all’evocazione di una storia personale (“Credi, ho un curriculum fiacco / laurea, patente b, / inglese scritto e parlato – / non rido / più come un tempo…” p. 26) stilizzata, nelle sue disadorne linee e con svagata connotazione emotiva, lungo il dispiegarsi dei giorni e delle vicende, delle impressioni e dei sentimenti, delle riflessioni e dei giudizi e delle sentenze di un uomo “senza qualità”, spaesato rispetto ai sogni adolescenziali, alla donna che ama, alla città in cui si trova a vivere, al tran-tran del lavoro, alle apparenze del reale, ai vacui miti del proprio tempo, dalla condivisione dei quali si sente, per indole, totalmente tagliato fuori.

     Ad attestarlo intervengono componimenti come Lo spadaccino, per esempio, dove il personaggio-“io” confessa expressis verbis l’inettitudine, lo stato di soggezione nei confronti dell’enigma-vita che, vanificando fatica di sentimenti, speranze, sogni, utopie, infligge, in compenso, tremende batoste (“Ancora non sapevo / quanto grande fosse la vita, / che così grande mi avrebbe superato, / reso infelice, vano. / Io allora non sapevo / di battaglie imminenti, / che a breve / il destino mi avrebbe nominato / spadaccino di ombre…”). O come Brescia, percorsa a cavallo di una mountain bike, in lungo e in largo e nei suoi luoghi canonici, dal“pendolare che riposa / nel suo moto domenicale”), nella cui chiusa lo stesso personaggio-“io” si tratteggia un rapido ritratto fisico al confine del grottesco (“io / omologato brutto / nella polla che ingloba, / nel Grande Rutto che mi usa / e da usato mi butta / senza appello né scuse”). O, infine, come La vicinanza, che, senza dismettere il tocco ironico-grottesco, conferisce invece tonalità e coloriture più marcatamente psicologiche al ritratto che l’“inetto” si autodipinge (“… non reggo sotto tortura, / dei Greci antichi mantengo / un malinteso sprezzo / per l’infinito, / a una vita incauta antepongo il fascino / di una lunga vecchiaia. / Eppure, / ho molte cose da fare, / non dico / cambiare il mondo, / ma almeno / questo nostro paese, / questo vecchio rione, / almeno l’azzurra via, / la quieta periferia che ci accoglie / ogni sera, / e la strada, le molte famiglie / di questa Inacasa…”).

     Coerentemente e funzionalmente alla rappresentazione di uomo “senza   qualità” che di sé fornisce nei versi – di uomo che si sente ai margini della vita e che nell’umile e consunta monotonia degli atti e dei gesti quotidiani quasi se ne dimentica e ne viene quasi dimenticato –, il protagonista dei testi di Sembianze si crea un assortito catalogo d’insetti  e di piccoli, comuni animali (il gabbiano, la mosca, il canarino dalla zampina dolorante, i topi, la lucertola, il gatto con un solo occhio, i pesci, il merlo, il ghiro “che ieri sognò / di essere umano”, la rana, il moscerino, la talpa bianca, la lucciola), attraverso le cui vicende appena accennate, non soltanto trae lo spunto per formulare, come accade negli apologhetti di Fedro, i propri giudizi, le proprie sentenze intorno alla condizione umana (“La libertà fa male agli innocenti”: cfr. Stecche; “Tutti credono che il destino / abbia segni riconoscibili”: cfr. il testo non titolato di p. 21), ma anche per proporre, sul pedale continuo di una mormorata, strascicata, lancinante tenerezza, una sorta di metafisica delle cose che ci stanno accanto e, con la loro discreta presenza, accompagnano i nostri impervi giorni: cfr. il testo non titolato di p. 39).

          Spesso capita, poi, che gli insetti e i piccoli animali vengano assunti a poetici“pretesti” per consentire al personaggio-“io” di definirsi meglio e più in profondità nella stilizzazione lirica: così, la cimice cresciuta in casa, nella soia, che vive “l’amore silenzioso delle cose”, lascia trapelare un analogo amore del personaggio-“io” (cfr. il testo non titolato di p. 18); e, nelle domande riguardanti il misterioso destino dei piccioni, pare specchiarsi l’ansia gnoseologico-metafisica circa il proprio destino da parte di chi quelle domande si pone (cfr. Piccioni). E se il bestiario si allarghi ad altri e più esotici animali (il lama, il cammello, la scimmia…), essi si fanno portavoce, per combaciamenti analogici o metaforici, di emozioni, di istanze, di riflessioni, di ubbìe, proprie dello stesso personaggio-“io”. Come emerge da Stili (ripresa): “A volte, vorrei avere nella vita / la disinvoltura del lama (quando sputa), / guardare con indifferenza, / con la quieta sonnolenza / della pecora che rumina”.

              C’è, pertanto, nelle invenzioni poetiche di Sembianze, una velatura di affabile minimalismo, che patina figure, immagini, gesti, paesaggi, animali ed oggetti comuni, “normali” e li avvolge in un’atmosfera soft, al cui interno consistono in forza della demiurgia di una malleabile parola che li nomina, uno a uno, con precisione ferma e decisa, con icastico nitore di contorni, in un dettato poetico aperto, di immediata comunicatività, e variato nei ritmi e nei timbri. E c’è, insieme, uno sguardo che scruta le cose, penetrante fino alla spietatezza, unito al livello di un’ironia, talora sì al confine fra grottesco e paradossale, ma, molto spesso, amara-malinconica-sorridente ed adoperata alla stregua di una generale attenuazione litotica del discorso lirico, che conferisce al verso il particolare tono confidenziale, tenuto costantemente “basso”. Un effetto, quest’ultimo, accentuato da altre due specificità di Sembianze: la scrittura versica breve, insofferente di rigidi schematismi e, per ciò, dalla metrica irregolare (senari e settenari, in prevalenza, frammisti a trisillabi, a quadrisillabi, a quinari, ma pure a novenari, a decasillabi, ad endecasillabi, a dodecasillabi), che assume un andamento discorsivo sommesso, un po’ spezzato, mimetico del conversare, del confessare; e il sapiente innesto di improvvise, strategiche rime anche nel mezzo, vòlte ad ammorbidire la frase lirica con note di cantabilità, a renderla avvolgente, sussurrata: intima.

     Con simili strumenti tecnico-stilistici, quando non scagli acuminati strali contro il vuoto volgare della società contemporanea (cfr. Borsini e GS), o non s’immetta, forse per ritrovarsi e rassicurarsi, in scorci paesaggistici tutti concretezza di cose (“È scesa la sera / sul cantiere azzurro, restano / transenne e pozzanghere, stelle / serene fra le impalcature. / Da poco ha smesso di girare / la betoniera fra i mucchi di calce, / e per tutto il giorno nel sole è salito / un secchio giallo e una fune…”: cfr. l’inizio di Preghiera), o non tenti, senza riuscirvi,  d’abbandonarsi al gorgo di un’annichilente “smemoria”  che lo cancelli (cfr. il testo che chiude la raccolta), il protagonista della poesia di Francesco Scaramozzino, dietro l’apparenza smarrita, dietro l’esibito (se si vuole) atteggiamento umiliato-perdente dell’uomo dappoco (“Per questo poco che sono, / […] cerco nei tuoi occhi la sola / circostanza del perdono”: cfr. il finale di Brescia), attinge il tòpos letterario dell’eroe antifrastico: “dello spadaccino di ombre”, non partecipe dei miti, delle mode, dei fasti consumistici di massa, il quale, dall’angolo prospettico di una visione ironica dell’universo, ha una sua verità da rivelare ed usa la scrittura poetica per dare o ridare un senso al mondo. Convinto che, al di là delle sembianze con cui si manifesta, la vita, quella vera, stia nella fugacità di un attimo, in un lembo di memoria, nell’ombra di un sorriso, nel flatus vocis di una parola, nell’eternità di un gesto, di un ricordo, di un incanto.  Nello spreco, insomma, dell’inutile, dell’ineconomico, dell’invano.    

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Nato a Giarre nel 1941, Franco Pappalardo La Rosa si è laureato in Giurisprudenza a Torino, dove vive dal 1963. Giornalista, critico letterario, poeta e narratore, ha collaborato alle pagine culturali de L’Umanità, del Giornale del Sud e della Gazzetta del Popolo e a numerose riviste letterarie. Ha redatto: “voci” per il Dizionario della Letteratura Italiana (Milano, Tea, 1989), per il Grande Dizionario Enciclopedico – Appendice 1991 (Torino, UTET, 1991) e per il Dizionario dei Capolavori (Milano, Garzanti, 1994). In volume ha pubblicato: Il filo e il Labirinto: Gatto, Caproni, Erba (Torino, Tirrenia Stampatori Editrice, 1997); Cesare Pavese e il mito dell’adolescenza (Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1993, 1a ristampa); Lo specchio oscuro: Piccolo, Cattafi, Ripellino (ibidem, 2004); Viaggio alla frontiera del Non-Essere: la poesia di Giorgio Caproni (ibidem, 2006); Il poeta nel “labirinto”: Luciano Erba (ibidem, 2006); Alfonso Gatto: dal surrealismo d’idillio alla poetica delle “vittime” (ibidem, 2007); Il fuoco e la falena. Sei poeti del Novecento: Caproni, Cattafi, De Palchi, Erba, Piccolo, Ripellino (ibidem, 2009); Cinque studi. Esemplari di narrativa italiana del Novecento (su “Associazione indigenti”, di M. Collura, “Caro Michele” di N. Ginzburg, “L’amore è niente” di M. Lattes, “Il Compagno” di C. Pavese, “Fratelli” e “Il Custode” di C. Samonà), Torino, Achille e La Tartaruga, 2015; Le “storie” altrui: narrativa italiana del penultimo Novecento (77 recensioni e interviste), ibidem, 2016. Autore anche di narrativa e di poesia, ha pubblicato: Il vero Antonello e altri racconti, Acireale, Lunarionuovo, 1985; Angelo, Torino, Ananke, 1999; Il caso Mozart, Roma, Gremese, 2009, postfazione di G. Barberi Squarotti (romanzo finalista al premio Brancati-Zafferana 2009); Rondò. Tre racconti, Milano, Mimesis, 2012, nota critica di G Tesio; Farandoletta. Un sogno in Sicilia, romanzo, Torino, Achille e La Tartaruga, 2018; Il Melomane, romanzo, ibidem, 2022; L’orma di Sisifo. Poesie 1958-2012, nuova edizione con inediti, ibidem, 2020 (contiene le poesie apparse, rispettivamente, nelle sillogi: Il cuore, la metropoli, Padova, Rebellato, 1969, e Ultime dalla Còlchide, Torino, L. G. C., 1978).

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