9 Marzo 1979 :il delitto “politico mafioso” di Michele Reina

Michele Reina, venne uccio a 49 anni, trentaquattro anni fa ,il 9 Marzo del 1979, da killer mafiosi. In quel momento Reina, politico di primo piano in Sicilia , era segretario provinciale della Democrazia Cristiana a Palermo vicino a Pier Santi Mattarella. Ricopriva anche il ruolo di consigliere comunale e viene ucciso all’indomani di un accordo politico che stava tentando di sancire con il Pci anche se la maggioranza del Partito si opponeva. Reina era stato eletto nel 1961 nella lista del DC al Consiglio Provinciale, proprio quando vennero istituite le provincie elette direttamente dal popolo. Era dotato di ottime qualità politiche e lo stesso anno il 4 dicembre fu il primo presidente di una giunta Dc-Psdi. Nel 1970 venne eletto al consiglio comunale di Palermo e nel 1972 ricoprì la carica di Assessore ai tributi in una giunta guidata da Marchello. Nel 1975 venne rieletto a Palazzo delle Aquile.
Il suo omicidio sconvolse la politica, fu un fulmine a ciel sereno per un mondo che in quel momento storico era “protetto” dalla mafia. L’agguato a Reina avvenne mentre si trovava sulla sua Alfetta 2000 insieme alla moglie Marina Pipitone, ad un amico di infanzia , Mario Leto (ex direttore amministrativo della più grande casa vinicola siciliana, la Corvo), e la moglie di quest’ultimo. La dinamica dell’omicidio fu quasi istantanea, all’improvviso si accostò all’auto di Reina una Fiat Ritmo grigia e da questo mezzo scesero due giovani a volto scoperto che cominciarono a sparare con una calibro 38 uccidendo Reina con colpi sparati al collo, alla testa e al torace. Mentre Mario Leto venne ferito a una gamba e lo stesso avendo una pistola che portava con sé si lanciò in strada sparando all’indirizzo dei sicari.

Erano gli anni del terrorismo e l’omicidio venne rivendicato prima dall’organizzazione terroristica Prima Linea e ,poi ,il giorno dopo dalle Brigate Rosse. Quella della pista terroristica apparve però poco credibile agli investigatori, mentre sembrava proprio una mossa della mafia per sviare le indagini.
Le indagini sono state lunghe e difficili non portando immediatamente a risultati concreti. Tuttavia nel 1984 Tommaso Buscetta dichiarò al giudice Giovanni Falcone e al Dirigente della Criminalpol Gianni De Gennaro che il delitto di Reina era stato compiuto su mandato di Salvatore Riina come tutti i delitti politico mafiosi di quegli anni di cui non vennero informati l’ala perdente di cosa nostra rappresentata da Stefano Bontate, da Salvatore Inzerillo e da Rosario Riccobono, nemici giurati della mafia di Corleone.
Tommaso Buscetta però non intendeva fare dichiarazioni dei rapporti tra la politica e Cosa Nostra in quanto lo Stato non era pronto per rivelazioni di quella portata.
Tale inchiesta confluì nel procedimento penale “Abbate Giovanni + 706” che fu appunto il famoso maxiprocesso di Palermo scaturito dalle dichiarazioni di Tommaso Buscetta e di altri “pentiti”, però poi il procedimento sul caso Reina venne stralciata per consentire un approfondimento istruttorio.
Francesco Marino Mannoia in suo interrogatorio nel Gennaio del 1990 davanti al giudice Falcone affermò testualmente che “essendo il Reina politicamente molto vicino all’on. Mattarella, la causale del suo omicidio non può che essere la stessa, trattandosi in ogni caso di indubbio omicidio di matrice mafiosa, connesso all’attività politica del Reina”, e che questo omicidio era “con indubbie caratteristiche politiche”.

Nello stesso anno tutte le indagini sui “delitti politici” siciliani(Reina, Matterella, La Torre e il suo autista Di Salvo) vennero unificate in un’unica istruttoria che fu affidata al giudice istruttore Gioacchino Natoli poiché si ritenne che i tre omicidi erano originati da un’unica strategia mafiosa dei vertici di Cosa Nostra. Le indagini condussero la Procura di Palermo ad un requisitoria di 1.690 pagine che venne depositata il 9 Marzo 1991 del 1991, costituendo l’ultimo atto investigativo di Giovanni Falcone che la firmò nonostante avesse dubbi in quanto dal suo punto di vista l’inchiesta non riuscì ad approfondire le reali motivazioni o moventi dei delitti.
E, quindi, nel giugno del 1991 il giudice Natoli rinviò a giudizio per il delitto Reina i componenti della “Cupola” di Cosa Nostra Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Rosario Riccobono, Giuseppe Greco , Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Antonio Geraci riconoscendo il cosiddetto “teorema Buscetta”, dove in buona sostanza si sosteneva che gli omicidi di un certo rilievo non potevano avvenire senza l’assenso del vertice mafioso proprio perché effettuati anche nell’ambito territoriale dei mandamenti controllati da Cosa Nostra.
Il dibattimento si concluse quattro anni dopo nell’aprile del 1995 con la condanna all’ergastolo dei membri della “Cupola” mafiosa nei suoi componenti Riina, Greco, Brusca, Provenzano, Calò, Madonia e Geraci , responsabili di vere deciso il delitto e di essere i mandanti dell’omicidio Reina
Infine nelle motivazioni della sentenza, i giudici ritennero che non era provato un movente “politico” dell’omicidio, quindi, il delitto non era legato alle posizioni di apertura ad una collaborazione con il PCI portate avanti dal Reina. Invece il delitto veniva ricondotto al fatto che l’uomo politico si era messo di traverso opponendosi a imprenditori edili legati a Vito Ciancimino e di conseguenza ai corleonesi, dando credibilità alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo. La sentenza venne poi confermata in Appello e anche in Corte di Cassazione divenendo definitiva.