Corsaro sì, ma gran signore

I centoventiquattro anni del salgariano Il Corsaro Nero
È nato centoventiquattro anni fa. Non in qualche esotico paese prospiciente il Golfo del Messico, ma a Sampierdarena, a due passi da Genova. È nato dalla penna di uno dei più prolifici e sfortunati scrittori d’avventura: quell’Emilio Salgari, veronese trapiantato sotto la Mole Antonelliana, che aveva concluso i cicli dedicati alla giungla, a Sandokan e Janez e, lasciando la nebbiosa e metafisica Torino del 1898, era piombato a Sampierdarena (appunto!), ma non per godere del caldo sole e del mare delle Riviera, bensì per battere cassa, per spillare qualche liretta all’editore Donath, spilorcione impunito, che aveva la sede da quelle parti e che gli comprava ciascun romanzo con una torta o un compenso in denaro da fame.
E lì è nato lui, Enrico di Roccabruna, Conte di Ventimiglia, signore di Valpenta: il Corsaro Nero, partorito dalla portentosa fantasia inventiva di un uomo di continuo assillato da impellenti necessità economiche, da un bisogno disperato di denaro per mantenere i numerosi figli e una moglie che rasentava i confini della follia.
Talmente assillato, da costringersi a spremere ingegno e immaginazione per procurarsene un po’; da trasformare il mare di Liguria nel mar della Tortuga, una barchetta da diporto, che veleggia a pochi metri dalla riva, nel mitico veliero La Folgore, un paio di tipi intravisti in spiaggia nei filibustieri Carmaux e Van Stiller (ma c’è anche un extracomunitario ante litteram: il negro incantatore di serpenti Moko), una sparuta bagnante – magari una “borghese” signora qualsiasi, di mezz’età e piuttosto racchia – nella giovane e bellissima duchessa Honorata Willerman (di cui il suo eroe senza macchia e senza paura prenderà una cotta tremenda, per scoprire alla fine che è la figlia del proprio acerrimo nemico) e un probabile nerboruto bagnino nel torvo olandese Wan Goud, governatore di Maracaibo e responsabile della morte dei tre fratelli del corsaro (naturalmente, corsari anche loro, sia pure con casacca di differente colore): uno ucciso a tradimento nelle Fiandre e gli altri due – il Corsaro Verde e il Corsaro Rosso – impiccati come predoni.

Chissà a quali biblioteche reali o della memoria Salgari abbia attinto il nome del suo malinconico eroe nerovestito, quale fascino il toponimo Roquebrune, situato un poco oltre il mare di Ventimiglia, sulla Côte d’Azur, abbia esercitato sulla sua fantasia di infaticabile viaggiatore immobile, di cursore appassionato di vecchie carte nautiche, di atlanti geografici, di antichi e polverosi dizionari di termini marinari, di sedentario centometrista della scrittura eternamente inseguito dai cani insensati e feroci della necessità.
E chissà che non sia stato quel toponimo a proiettargli dinanzi, sul bianco schermo del suo immaginario, la silhouette del conte Enrico così come appare nelle pagine del romanzo, vestita «completamente di nero e con un’eleganza non abituale fra i filibustieri del grande Golfo del Messico», a suggerirgli l’inizio del “ciclo dei pirati” (che proseguirà, nel 1901, con La regina dei Caraibi e, poi – rispettivamente nel 1905, nel 1908 e nel 1909 –, con Jolanda la figlia del Corsaro Nero, con Il figlio del Corsaro Rosso e con Gli ultimi filibustieri), a trasformare un piccolo e pacifico mare nostrano in un’immensa distesa d’acque tropicali ribollenti di galeoni e brigantini e caracche e feluche in battaglia, con abbordaggi, voli di corde con grappoli di pirati appesi, sinistri scintillii di corte lame che s’incrociano in cruenti corpi a corpi di uomini sulle fiancate.
Certo, il “papà” del Corsaro Nero, al di là della rapidità dello svolgimento dell’azione, del taglio secco, quasi cinematografico, delle vicende narrate, della (a volte) non superficiale carica di umanità di personaggi animati, sì, da forti passioni e spesso violenti, ma assiduamente trasfigurati da un’inesauribile vis inventiva in leggendari paladini dell’ideale e della giustizia, non poteva indugiare troppo, data l’urgenza (dovuta ad una condizione di miseria endemica) di produrre e consegnare manoscritti in serie, in approfondimenti e in scandagli psicologici dei propri eroi d’inchiostro. Né gli era dato di porre eccessiva attenzione allo stile, di conferire un minimo di eleganza alla struttura formale, ad una scrittura che spesso risultava – proprio per la fretta con cui veniva “prodotta” – prolissa, approssimativa, inadeguata ai contenuti dinamici, ai colpi di scena, ai mirabolanti sviluppi della narrazione.
E, tuttavia, quest’opera non va sottovalutata. Di essa, non si hanno precedenti, a meno di non volerli rintracciare nelle pagine dei viaggiatori scritte con altri intenti e altra coscienza: sicché non pare blasfemo affermare che atmosfere e vicende, che in qualche modo risveglino analogie con quell’aperto spazio di mari lontani ed esotici sbarchi e furiosi assalti e tesori conquistati e sommersi, si possono trovare in alcune novelle del Boccaccio o in romanzi epici e cavallereschi, mentre il profilo e il gesto di molti eroi salgariani paiono piuttosto ritagliati nella stoffa dei Lancillotto o dei Tristano, di Orlando e Tancredi, che non in quella di un Ivanhoe o di un D’Artagnan.
Se poi l’eroe salgariano non cerca il Gral o la salvezza del suo re o la riconquista del santo Sepolcro, l’irrinunciabile desiderio di vendetta sul bieco Wan Gould o l’altro, altrettanto irrinunciabile, della riconquista dell’indipendenza della propria terra, ricevono, nella narrativa del nostro scrittore, l’identica sacra consacrazione: riflettono, in maniera elementare, il metro della visione etica e del giudizio sul mondo dell’autore, dove i buoni e i cattivi, i leali e i perfidi sono facilmente individuabili.
Ciò, indipendentemente dalle pecche dello stile, dalla prolissità, dalla ripetitività degli stereotipi ricorrenti; dalle istanze mitografiche di cui la scrittura si faceva portatrice, dall’enfasi poetica, dalle formule esplicative ecc. Perché quella scrittura era intesa da Salgari in senso vitalistico, come indispensabile e concreto strumento per continuare ad esistere. Si potrebbe anzi sostenere, paradossalmente ma non troppo, che fu proprio quella scrittura ad assicurargli le sole brevi pausedi serenità nella sua tormentata vicenda umana, se è vero che, esaurito l’élan vital che riteneva gliene derivasse, l’uomo si determinava a compiere l’«insano gesto».
Qualche ragionamento del genere dev’essergli passato per la mente la mattina del 25 aprile del 1911, quando Salgari uscì di casa (in corso Casale, a Torino) e, come i suoi eroi tragici, andò a farsi karakiri a poche centinaia di metri di distanza, tra gli alberi (la sua giungla!) del boschetto Rey. In tasca gli fu trovata una lettera nella quale comunicava ai propri tirchi e famelici editori che non l’avrebbero mai più fruttato: che spezzava la sua penna, per sempre. Il 25 agosto avrebbe compiuto quarantanove anni.