Intervista alla scrittrice Silvana Grasso “ Ho adottato il Vulcano come mio antenato”

Silvana Grasso, scrittrice, nata a Macchia di Giarre, è senza dubbio alcuno una delle personalità culturali più celebri, famose e interessanti della letteratura italiana contemporanea. Nel corso di una lunga carriera ha svolto un’intensa e poderosa attività nel campo narrativo essendo tra l’altro anche una raffinata filologa del mondo classico, avendo tradotto dal greco Archestrato di Gela I piaceri della mensa, Matrone di Pitane Un banchetto attico, Galeno La dieta dimagrante, Eroda Mimiambi. Commediole del III sec. a. C.. Ha avuto anche il tempo di collaborare in qualità di critica letteraria con diverse testate giornalistiche tra cui Tuttolibri, La Sicilia di Catania e La Repubblica(Edizione di Palermo). La sua notorietà e la fama ha superato i confini nazionali e le sue opere, racconti, romanzi sono tradotti in inglese, greco, tedesco, olandese. Pertanto è una scrittrice dall’indole versatile e dalla natura poliedrica che si è cimentata come sceneggiatrice e autrice anche di piéce teatrali che sono state rappresentate oltre che in Italia ,anche in Francia e Spagna. Le sue opere sono state premiate con importanti riconoscimenti a livello nazionale , tutti di grande prestigio tra cui: il Premio Mondello, il Premio Brancati, il Premio Vittorini, il Premio Flaiano Narrativa, il Premio Grinzane Cavour Giovane autore esordiente e il Premio Grinzane Cavour Narrativa italiana. Recentemente nel 2017, all’Università di Utrecht, si è svolto un convegno internazionale a lei dedicato. Bisogna ricordare per titoli le opere più importanti pubblicate con le più importanti case editrici italiane: La pupa di zucchero(2001); Nebbie di ddraunàra (1993), Il bastardo di Mautàna (1994, ripubblicato nel 2011), Ninna nanna del lupo (1995, ripubblicato da nel 2012), L’albero di Giuda (1997, ripubblicato nel 2011), Disìo (2005, ripubblicato nel 2019), 7 uomini 7. Peripezie di una vedova ( 2006, ripubblicato nel 2018), Pazza è la luna (2007), L’incantesimo della buffa (2011), Il cuore a destra (2014), Solo se c’è la Luna (2017), Me pudet. Poesie 1994- 2017 (2019) e La domenica vestivi di rosso (2018).
Ha ricoperto anche il ruolo di Assessora ai Beni Culturali del Comune di Catania tra il 2007-2008 realizzando un ambizioso progetto denominato “Una cultura da Castello”, proteso a rivalutare e rivitalizzare il Castello Ursino di Catania.
Silvana Grasso è la scrittrice siciliana che ha portato la sua terra in giro per il mondo e i suoi romanzi hanno riscosso un grande successo e apprezzamento dal pubblico e dalla critica. Parlare con lei è un vero piacere per la vasta cultura di cui è dotata e per la sua grande vena artistica.
Lei è un fenomeno letterario del nostro tempo con una produzione cospicua e notevole. Eppure è rimasta una donna attaccata alla sua terra. E’ vero che lei possiede il fuoco dell’Etna nelle vene?
La geografia di un luogo, nel mio caso il Vulcano, a muntagna, di per sé non è affatto determinante per innescare rapporti “creativi”. Lo è invece quando si trasforma un catasto comunale in un catasto magico, questo, sì, fa la differenza. E’ d’intensità quasi genetica il rapporto che ho con i loci su cui il Vulcano detta i suoi comandamenti, le sue leggi, la sua liturgia, forte d’esserne il Patriarca, il Legislatore, da un Tempo immensurabile, un tempo senza tempo di lancette minuti secondi ore giorni mesi: il tempo di Cronos, il tempo del Mito. Il mio rapporto con il Vulcano è, dunque, primordiale, direi pre-natale, io bambinetta nata a Macchia di Giarre, in via Risorgimento, da un padre e una madre quasi analfabeti, con un piccolo bagaglio di luoghi comuni, tòpoi ereditati dalla tradizione orale più che familiare, ho progressivamente adottato il Vulcano come mio antenato “genetico”: la sua possanza medicava le mie debilità, il suo ruggito legittimava il mio, le sue eruzioni laviche dettarono le mie “eruzioni” linguistiche, non mai in modo surrettizio né oleografico né folcloristico. Eruzioni linguistiche che ho portato con me, piantati nei miei romanzi, nei miei articoli, in tutto il Mondo. Convinta che il Vulcano sia più una “religio” filosofica, linguistica, che geo-naturalistica. Moltissime tesi di laurea master dottorato di ricerca saggi monografie, prodotte in tutto il mondo sulla mia scrittura, rimandano esattamente a un rapporto particolarissimo, tra me e un numen, il Vulcano.
Il nostro siciliano, è bene ricordarlo, è per lo più greco, un lascito magnifico di quella presenza greca in Sicilia, cui si devono città e architetture straordinarie. Dunque una lingua irrinunciabile e universale, la nostra, gravida di cultura, culture, migrazioni, conquiste, popoli seminatori conquistatori. Una lingua musicale a cui non ho mai rinunciato e che, oggi, ritengo sia stato strumento vincente per la mia scrittura nel Mondo. Una scrittura debole, senza riconoscibilità senza karaktèr, scompare velocemente. La mia, dopo trent’anni, è studiatissima in tutto il Mondo, da Melbourne alla Germania alla Spagna alla Russia alla Cina alla Grecia all’Olanda…et et et. Cedo sempre il passo alla mia scrittura più che alla mia persona, io sono come tutti “creatura d’un giorno”, transeunte, moritura, lei no. Lei parlerà sempre di Sicilia, di Mito, di Bellezza, lei che non è “creatura d’un giorno”.
Lei ha sostenuto provocatoriamente che un romanzo “deve molestare”. Che intende dire?
La scrittura, in ogni sua forma, articolo racconto poesia romanzo, deve “molestare”. Confermo appieno verbo e concetto. La scrittura non deve lasciare chi legge in comfort zone, cioè in quel pacato ottuso benessere in cui ci lascia una merendina, una puntata in tv di qualche serie poliziesca o una pizza che, martoriata dal vapore, arriva con consegna a casa. Perché leggere, se la scrittura non desse altro benefit di quello che dà mangiare una fetta di pizza o di ciambellone al cioccolato? Quando, da scrittore, entro nella vita e nella casa di un lettore, sono comunque un clandestino a bordo di quella vita che, sotto silenzio, nasconde chissà quante delusioni, amarezze, insoddisfazioni e persino truffe subìte sul luogo di lavoro o in seno alla sua stessa famiglia anagrafica, oggi sempre più spesso luogo di sofferenza indifferenza apatia.
Sentirsi estraneo tra gente apparentata per sangue o rito civile di matrimonio è sempre più una condicio universale, una necrosi familiare affrettata dall’irruzione dei social, che di fatto si sono surrogati alla famiglia di diritto.
Io valuto, in primis, la necessità di una scrittura, a fronte di libri assolutamente non necessari, che levano tempo spazio dentro la libreria e pure soldi, libri pronti a essere “evacuati nel momento stesso in cui, a lettura incompleta o finita, scompaiono non tanto dal comodino quanto dall’apparato emotivo del lettore.
La teoria della “molestia” nasce da tanti lettori che, quando mi leggevano per la prima volta, provavano un tal malessere da scrivermi privatamente, risentiti arrabbiati, un malessere che però li portava sempre a riprendere in mano un mio romanzo e andare avanti, quasi un atto masochistico. Invece no. Proprio questi lettori, oggi, sono i miei più forti lettori, perché se è vero che la mia scrittura accende il faro su quelle zone d’ombra con cui, spesso, mistifichiamo e occultiamo, per sopravvivere, infelicità insoddisfazione malessere, è altresì vero che portare in superficie la melma dell’angoscia, serve a innescare un processo liberatorio. In fondo questo stesso è successo proprio a me, mi sono tantissimo “molestata” scrivendo, affondando il bisturi su mie infelicità, addirittura pre-natali, che avevo occultato, sino a quando non mi sono servita della penna come uno scalpello per scassinare il bunker del mio malessere. Questo non significa affatto curare il malessere, ma solo conoscerlo e, soprattutto, riconoscerlo. Per me è stato addirittura terapeutico.
D)Lei ha sostenuto che “la lingua d’uno scrittore è come la lava per un vulcano”,come dire, che la sua personalità è percorsa dalla natura che la circonda. Lei sogna e poi scrive oppure osserva la realtà costruendo metafore e cosa la ispira nella scrittura?
Dormo non più di tre ore a notte, dunque non c’è spazio per il sogno, che detesto concettualmente e letterariamente, a meno che non si tratti di un capolavoro come il Somnium Scipionis di Cicerone, ma questa è un’altra storia. Non vivo mai cucita presente, seppure debbo farci i conti, non vivo mai in un tempo frettoloso da calendario se non quando devo volare in America Tunisia Germania Olanda et et per lavoro, ovviamente. Io che detesto viaggiare sono in perenne “viaggio” pur restando, quanto più possibile, nelle geografie a me care, queste, dove la mattina, quando non sono altrove, mi raggiunge il forte respiro del Vulcano, la sua irritazione, la sua incazzatura. Su questa costa io vivo, più che posso, un tempo di grande Bellezza, che diventa poi parola sillaba racconto storia, dunque questa Natura magica è induttore d’arte, di creatività per me. Penso che, nata altrove, sarei stata un trunzo, questi luoghi, invece, hanno agito da lievito sulla materia inerte, cellule sangue scheletro, elementi con cui tutti noi veniamo al mondo ma che , se non “risvegliati” , sono paragonabili ai mattoni per i muratori quando non intervenga un’architettura a dare loro una morphè.. Senza un “lievito” che agisca su un inerte patrimonio organico si vive in una “cecità”, non meno grave che quella da diagnosi oculistica. Senza una leva che chiamo “lievito” non avrei mai avuto accesso a una “tridimensionalità” che la scienza esclude come caratteristica degli esseri umani. La tridimensionalità, di cui parlo, è, demolendo se occorre, andare oltre la facciata delle cose, oltre il recinto dei luoghi comuni, oltre il limite del comune rassicurante pensiero. E’ dunque fare “autopsia”, indagine, di quel che vediamo , di quello a cui ci avviciniamo, non accettazione ottusa statica di quelle finte certezze che le generazioni precedenti ci hanno lasciato, imposto più che proposto, in eredità. La parola ”sogno” mal si concilia con il “bisturi” con cui io opero sulla realtà, come un chirurgo e in modo cruento, perché ogni “fenditura” ogni squarcio, ogni disseppellimento presuppone gocciolamento se non versamento di “sangue”. Ovviamente non sangue da provetta ma “sangue” generazionale, patriarcale, nel senso più ampio del termine.
Fuor di metafora lei avrà già capito che mi riferisco a quella irruzione, soprattutto nella ”parola”, che al massimo deve essere” spremuta” indagata squartata perché riveli tutti i nascondimenti, le allusioni, le contraddizioni, la magia, che dentro sé contiene, esattamente come una placenta contiene un feto umano. La parola, se sottoposta a questa anabasi che da parte mia è non solo filologica- ha detto bene lei, io sono un filologo classico- ma emotiva induttiva caratteriale e, persino, drammaturgica. Nessuna lingua, a meno che non sia lingua di gesti, ha valore di per sé, è la parola a fare di una “lingua” una patria una storia un albero genealogico.
Qual è il suo “ l’entroterra emotivo”?
L’entroterra emotivo non è una palude ma un flumen in perenne corsa o “transumanza” se vogliamo usare un termine a me carissimo, perché la mia natività, quella che cioè ho scelto, non quella per cui il Caso, la Tyche, ci consegna in una provincia o in un’altra, al Nord o al Sud, in un paese di costa dove i tramonti non tramontano mai, dove il sole ustiona l’anima prima che la pelle o in un paese di montagna, dove la lava si sversa negli occhi prima che tra abeti e betulle. Dunque il nostro “paese” emotivo emigra con noi, viaggia con noi in viaggio perenne, pronto a rinnovarsi, introitando nuove suggestioni, ma anche pronto a recalcitrare rispetto a vecchie “truffe” spacciate e contrabbandate per “conquiste”. Non alludo tanto a un malsano uso dei social, quanto, e soprattutto, a certe acrobazie di una brutta politica che vanvera di futuro rea di avere distrutto anche il presente, attenta solo allo scranno personale, a predare quanto più profitto economico possibile e vantaggi. Al di là dell’illecito penale di simili comportamenti, nei confronti di quali le Procure negli ultimi anni sono state sempre più vigili, c’è un illecito morale ai danni di chi ha votato, di cui nessuno risponderà in nessuna sede. Accecata e infestata da libido rei publicae capiundae, la Politica è, oggi più che mai, da riprogettare nella direzione dell’utile e dell’onesto per i cittadini , non per avventurieri eletti da sconsiderate leggi porcellum e simili.
Che idea ha Silvana Grasso del femminismo e dell’emancipazione della donna?
La Storia dimostra che ogni movimento d’ordine sociale, come fu il femminismo, nato all’interno di un contesto, resiste fino a quando resiste, inalterato, il contesto. Da molti anni non è più contesto da femminismo serio, né si può considerare femminista qualche frangia, priva di conoscenza storica e cultura sociale, che si raduna attorno a una tavolata, il giorno 8 marzo, e plaude fuori controllo allo spogliarello di palestrati toyboy.
Oggi, bisogna educare i giovani alla persona, alla femminilità. Deve essere chiaro e martellante il messaggio che l’evoluzione del ruolo femminile non passa affatto attraverso la delegittimazione del maschio. La delegittimazione, se non la cancellazione della figura maschile, non è affatto un postulato del Femminismo, storico e serio.
In questo marasma socio-concettuale non aiutano le istituzioni, non aiuta la Scuola, che dovrebbe incessantemente essere il primo sportello educativo-formativo, soprattutto in certe aree, per adolescenti maschi e femmine. Un’adolescenza “formata” a princìpi seri predispone a una generazione adulta, non in conflitto di ruoli ma in convergenza e sinolo. Un malinteso femminismo, il femminismo di fatto al Sud non è mai arrivato, ne scrivo nel mio romanzo “La domenica vestivi di rosso”,( Marsilio editore), d’ambientazione catanese- ha creato e crea surrogati anacronistici, pericolosi oltre che depistanti. Surrogati, frutto di ignoranza della nobile Storia femminista(Emmeline Pankurst, Marie Curie, Frida Kalo, Ruth Bader Ginsburg, Anna Maria Mazzoni, Sibilla Aleramo, Ada Negri Garlanda)che contestano per esempio, in quanto comportamento non femminista, un modello di madre che voglia occuparsi anche a tempo pieno dei figli, e che non intenda sopprimere né schiavizzare la figura paterna. La parità di sesso, sacrosanta, non va mai confusa con la parità di ruolo, che invece deve mantenere una sua specificità perché più armonico e complice sia il rapporto sociale maschio-femmina.
Che ricordo serba della Sicilia antica, di Macchia di Giarre ?
A Macchia di Giarre nacqui in un tramonto di giugno color di nespolo. Nonostante, “tradotta” a Giarre, avevo appena 18 mesi, le mie carni, la mia anima, consegnano la mia natività a Macchia. La mia natività, assai più che la mia nascita, assai oltre che nascere in una geografia di luoghi e case catastate al Comune di Giarre. Per natività intendo quel catasto magico che mi porto addosso come il mio vero dna, quello che le mie emozioni hanno scelto, quello che la mia scrittura riconosce come sua fonte primigenia, sua vera Madre. Dunque non una presupposizione o un pre-giudizio, ma il naturale ricomporsi di una figlia alla sua terra, al padre suo, un Vulcano, pur se questo è in apparente contraddizione con il padre d’anagrafe , Giuvanninu menzalingua, unico maschio dopo tre sorelle. Mio padre che, ragazzino, orfano di padre, il suo era morto da emigrato in Australia a tagliare canne di zucchero, lasciò la zappa che conosceva, il cielo di Macchia che conosceva, il siciliano che conosceva, per una guerra di cui nulla conosceva. Un treno sporco, dopo settimane di fame freddo e nostalgia , lo scaricò in Russia, tra nevi sconosciute e una sconosciuta lingua, il russo. Appuntata sulla maglia di lana, a contatto di cuore, la medaglietta di santo Vito, in spalla un fucile che pesava più delle sue ossa, da cui era scomparsa ogni traccia di carne, su laghi ghiacciati allo sbando, senza sapere contro chi sparare e soprattutto perché sparare. Non sparò mai mio padre Giovannino. Sopravvissuto a tutti i suoi compagni, adolescenti come lui, tornò a Macchia, irriconoscibile persino per sua madre, dopo cinque anni di prigionia. Ma lui riconobbe subito l’odore del paese, l’odore di casa, l’odore di pane appena sfornato.