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Gli astratti furori di Elio Vittorini

Durante il mio percorso universitario, qualche anno fa, mi ritrovai a leggere Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, un libro attuale e tra i più significativi di questo autore; un viaggio reale e al contempo metaforico che il protagonista Silvestro, oppresso da un tormento interiore “gli astratti furori”, compie per ritornare nella nativa Sicilia da cui era partito quindici anni prima. La Sicilia di Vittorini, per sua stessa ammissione, è solo un nome. Vuole essere un luogo non localizzato nel quale si possono vivere, come in sogno o nell’idea, solo esperienze universali. Infatti, nella nota conclusiva chiarisce: “Ad evitare equivoci e fraintendimenti avverto che, come il protagonista di questa “Conversazione” non è autobiografico, così la Sicilia che lo inquadra e accompagna è solo per avventura Sicilia; solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela”. Se da una parte con questa nota “irrealistica” tenda di allontanare dal romanzo il sospetto di avere un filone di denuncia politica che era la necessità originaria che aveva portato Vittorini a scriverlo, dall’altra ci suggerisce una lettura fuori dal tempo e dallo spazio. La realtà resta, sicuramente, la matrice di quest’opera, ma essa è trasfigurata per porre l’attenzione su quell’umanità offesa e su quel dolore del mondo che la Sicilia amplifica ed esalta, ma che sono condizione proprie di quel genere umano perduto che viene invocato ed evocato sin dalla prima pagina: “Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi sono messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto”; o ancora “Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario…”. Questa pagina è tra le più celebri del romanzo, tra le più corrosivamente antifasciste di tutto il ventennio, descrivendo meglio di qualsiasi altra pagina quella che era la condizione dell’intellettuale negli anni del regime fascista: animato da astratti furori, sapeva di dover fare qualcosa ma non aveva febbre di farlo. Un atteggiamento decadente che il regime protrae a lungo perché fa comodo e allo stesso tempo essere consapevoli, come il protagonista, che questo era il terribile “La quiete nella non speranza”; era un popolo che sapeva di essere perduto: “credere il genere umano perduto e non avere febbre di fare qualcosa”.

Silvestro nel corso di questo viaggio iniziatico incontra una miriade di personaggi simbolo, portatori di significati e di messaggi a cominciare dall’uomo delle arance, con le sue arance invendibili, simbolo di quell’umanità perduta; la figura del Gran Lombardo, rappresentante di un’umanità che aspira alla libertà e che invoca “nuovi, altri doveri” per gli uomini; o i personaggi a cui è affidato tale compito: un arrotino, un sellaio, un mercante di panni, nei loro diversi modi di reclamare ed aspirare a un mondo migliore: come rivolta, come coscienza idealistica e accorata del mondo offeso, come anelito alla purificazione, riveleranno la loro incapacità in quanto incapacità di qualsiasi possibilità di redenzione e di salvezza. 

Se dovessi dare un’idea semplice di Vittorini direi che è un intellettuale sempre contro, protestatario, uno sempre in prima fila e sempre sulle barricate. Un inqueto Vittorini che attraverserà, nel corso della sua vita, tante fasi e cambierà tante bandiere, ma sempre animato da un’unica idea fissa, un’idea che potremmo dire totalmente anti-decadente. Infatti, Elio risalta il ruolo dell’intellettuale, addirittura lo rilancia, lo sopravvaluta, per lui l’intellettuale deve essere guida della società. In questo già è visibile un cambiamento di prospettiva, una coscienza ideologica, rispetto a chi si ritraeva dal mondo, come il personaggio decadente di D’Annunzio Andrea Sperelli; ora invece l’intellettuale che entra nel mondo, lo affronta a viso aperto perché lo vuole guidare. Ma Vittorini non vuole guidare le masse, ha un’aspirazione ancora più alta, vorrebbe guidare i cambiamenti sociali.

Un Vittorini, quindi, non solo romanziere, ma anche e soprattutto un organizzatore di cultura. Una cultura impegnata e “intrinsecamente” rivoluzionaria, che egli tenda di lanciare nel clima carico di aspettative del dopoguerra, cercando una collaborazione con il Pci. Problematica dibattuta nel Politecnico, rivista diretta da Vittorini fra il 1945 e il 1947, che risulterà segnata dal fallimento di questo generoso tentativo e dalla chiusura della rivista da parte del partito. È nota l’affermazione vittoriana della necessaria autonomia della cultura da ogni forma di potere organizzato, culminata nella polemica con il segretario del Pci Palmiro Togliatti. Vittorini in una lettera del 1950 riassumerà così le sue posizioni: «Nel Politecnico ho tentato di convincere i politici a riconoscere che se una parte della cultura  lavora per la civiltà e può, come tale, piegarsi anche alle esigenze politiche, un’altra parte della cultura (la cultura nel suo senso maggiore, e specialmente la poesia, le arti) lavora principalmente per la verità, per la ricerca della verità, e non può dunque assecondare le esigenze immediate della politica senza il rischio di perdere ogni senso e ogni valore».

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Mi chiamo Serena Cacciola, ho 24 anni e sto completando il mio ciclo di studi all’Università di Catania presso il dipartimento di Scienze Umanistiche, dopo aver conseguito la laurea in Lettere Moderne a pieni voti. La passione per la letteratura e per le arti in genere mi ha consentito di guardare ogni cosa da punti di vista differenti, di visitare infiniti mondi e vivere vite diverse, arricchendomi culturalmente e permettendomi di sviluppare una coscienza critica ed etica. La curiosità per il mondo del giornalismo e dell’editoria comincia dagli anni del Liceo, periodo in cui inizio a scrivere in proprio e non solo. La scrittura, mezzo per affrontare le attuali questioni socio-politiche, mi ha dato l’opportunità di confrontarmi su queste tematiche con alte cariche politiche, a cominciare dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che mi citò nel discorso di fine anno del 2013, a cui seguirono diversi incontri. Come direbbe Cesare Pavese “la letteratura è una difesa contro le offese della vita”. Contenta di questa nuova esperienza e di poter far parte di Clessidra 2021.
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