Intervista al giovane Pierfilippo Agati, debuttante sul grande schermo nel film “Comandante”

Ci sono film che non possono non essere visti, per il messaggio che trasmettono, per la storia che raccontano, per la bravura degli attori e del regista, per la fotografia e la scelta musicale. Comandante, dal 31 ottobre in tutte le sale italiane, è uno di questi. Il film, della regia di Edoardo De Angelis, è ambientato nel 1940, in piena Seconda Guerra Mondiale, e per questo forse che molti lo hanno classificato, ancor prima di andarlo a vedere, come un’apologia del fascismo. In realtà, Comandante ci mostra marinai e non fascisti; non ci parla di ordini ma di gesti: quelli di un uomo, Salvatore Todaro, magistralmente interpretato da Pierfrancesco Favino, che è un modello diverso di forza. Un uomo che tende la mano al debole, allo straniero, mostrandoci la necessità, a volte, di un’irrinunciabile disobbedienza civile per non smarrire, per sempre e come spesso accade in tempi di guerra, la nostra umanità.
“Noi affondiamo il ferro nemico, ma l’uomo lo salviamo” proprio così dice Todaro, comandante del sommergibile Cappellini, protagonista della vicenda del Kabalo, un mercantile, che successivamente si scoprirà essere belga, che viene affondato dall’equipaggio del Cappellini, ma di cui vengono salvati i naufraghi sotto decisione del Comandante stesso. È qui che risiede il senso profondo di questa storia. Una storia vera, attuale, di tutti, che ha molto da insegnare ad un mondo che pare aver perso il vero significato di umanità. Una umanità che forse risiede anche nella stessa idea di italianità, come sembra suggerirci lo stesso Salvatore alla conclusione del film, che alla domanda del comandante belga, sul perché avesse rischiato tanto per salvare lui e il suo equipaggio, risponderà: «perché noi siamo Italiani».

Insieme alla storia di Todaro, c’è anche il racconto del resto dell’equipaggio del Cappellini e tra questi quella di Antonio Nucifero, interpretato da Pierfilippo Agati, giovane linguaglossese di talento, che debutta sul grande schermo e a cui ho avuto il piacere di fare qualche domanda.
Quali sono stati i motivi che ti hanno spinto a coltivare la passione per la recitazione, partendo dal teatro per arrivare al grande schermo?
I motivi che mi hanno spinto a perseguire questo mestiere sono stati molti, col tempo però ho maturato che il motivo principale è stata un’intuizione. Ad un certo punto della mia vita ho intuito di avere bisogno della necessità di esplorare ciò che sentivo dentro di me; e che, se fosse riuscito a manifestarsi in qualche modo sarei stato in grado di capire meglio me stesso e il modo in cui coesisto intrinsecamente nella società in cui viviamo.
Sì, il mio percorso è iniziato nel teatro inglese, dove ho conosciuto e scoperto l’amore per quest’arte. Credo che sia stata un’esigenza inevitabile per me quella di esplorare quest’arte anche dal punto di vista cinematografico. La mia ambizione, poi, mi ha permesso di accettare e responsabilizzarmi sulla mia decisione di lavorare nel mondo del cinema».
Ti ispiri ad un modello? Se sì, a chi ti ispiri tra gli attori e le attrici che hanno fatto e continuano a fare la storia del cinema?
Come tutti, credo, ci ispiriamo a uno o più modelli. Nel mio caso posso dire di aver avuto la fortuna ed il grandissimo onore di poter imparare da uno di questi personalmente: Pierfrancesco Favino. È stato per me un vero e proprio emblema di ciò che, secondo me, significa raggiungere il successo attoriale. Oltre ad essere un attore assolutamente completo, è stato particolarmente importante per me apprendere l’immensa umiltà che una persona come lui ha. Nei suoi film lui riesce a mostrare una completa umanità nei suoi personaggi e per me è stata una vera e propria lezione di vita vedere come qualcuno come lui si comporta nel momento in cui le telecamere non stanno girando.
Com’è stata l’esperienza sul set di questo film e il rapporto con gli altri attori del cast?
Voglio approfittare di questa domanda per ringraziare sia Edoardo De Angelis, ovvero il regista, ma anche Marco Matteo Donat-Cattin e Gabriella Giannattasio, ovvero i casting directors, per aver messo insieme una squadra che, oltre ad essere stata un perfetto match nel raccontare questa storia, è diventata parte integrante della mia vita personale. Il nostro è comunque un mestiere e come tale, spesso, le relazioni all’interno di esso sono limitate dal mestiere stesso e dai pochi mesi che servono a portare a termine un progetto. L’equipaggio del Cappellini, però, non si è mai sciolto e tuttora ci sosteniamo a vicenda nelle nostre battaglie personali.
Qual è il ruolo del tuo personaggio?
Il mio personaggio si chiama Antonio Nucifero, cannoniere primo servente. Si è imbarcato sul Cappellini dopo la morte dei suoi fratelli durante il conflitto mondiale. Lo vedrete suonare il marranzano (schiaccia pensieri) tra una cannonata e l’altra, per colmare i lunghissimi momenti di claustrofobia durante le interminabili navigazioni in Atlantico».
Quali sono state le emozioni e il tuo approccio alla recitazione nel momento in cui ti sei trovato accanto ad attori del calibro di Pierfrancesco Favino? E, soprattutto, cosa ti ha lasciato questa prima esperienza cinematografica?
Prima di arrivare sul set tanta ansia, preoccupazioni e una buona dose di autosabotaggio. Tutte cose che sono immediatamente sparite nel momento in cui ho messo piede a Taranto e ho incontrato il resto dell’equipaggio: tutti attori di un’umanità incommensurabile.
Non dimenticherò mai questa esperienza e ciò che mi ha regalato. Il set de il Comandante è stato in sé un vero e proprio gioiello ingegneristico. Infatti, il sommergibile Cappellini è stato ricostruito fedelmente in scala 1/1 nei tre anni precedenti alle riprese. Tutta quella magia, grandezza ed epicità era già presente lì: a bordo del Cappellini. Io ho solo dovuto fare lo sforzo di percepirla e trasferirla al mio personaggio.
Questa prima esperienza cinematografica in Italia mi ha arricchito non solo come attore, ma soprattutto come essere umano, insegnandomi il valore della vita. I personaggi che abbiamo avuto l’onore di interpretare hanno avuto il coraggio di lasciare la propria casa per una causa più grande di loro, e questa cosa mi ha colpito proprio nel momento in cui ho indossato la divisa militare per la prima volta, riscoprendo il senso del dovere, la disciplina, la fraternità. Tutti valori che purtroppo al giorno d’oggi sono difficili da trovare nella vita di ogni giorno.
Questa storia, secondo te, cosa può insegnarci? E perché dovremmo andare a vedere il Comandante?
“In mare siamo tutti alla stessa distanza da Dio, a distanza di un braccio: quello che ti salva”. Comandante inizia con queste parole, pronunciate da un superstite in mare salvato nel marzo del 2023 nelle acque del Pacifico da una nave ucraina. Secondo me questo film ci insegna l’importanza della solidarietà, dell’aiutare il più debole e che il tendere la mano è la vera forza di ognuno di noi. Questo tema ci riporta a molte situazioni veramente attuali. Da italiano credo sia importante andare al cinema per vedere Comandante, questa storia ha molto da insegnarci ma soprattutto parliamone, parliamone molto, perché questa storia non può essere dimenticata.
Hai già dei progetti futuri? Quali?
Si molti, moltissimi. Per il momento non posso parlarne però presto avrò modo di condividere i miei progetti futuri. Intanto potrete vedermi a gennaio nei panni di Renzo, il protagonista del meraviglioso cortometraggio “Dolci Acque” diretto dal premiatissimo regista Luca Grazioli e prodotto dalla casa di produzione milanese 6/8.