Aksil

I muscoli tesi per lo sforzo, il pelo, nerissimo, imperlato di sudore, Aksil correva all’impazzata attraverso l’altopiano.
Le possenti zampe macinavano il terreno polveroso in modo quasi automatico.
Era ormai vicino alla Gola di Todra.
Lo stallone sarebbe arrivato fino in capo al mondo, ma lo sfidante, all’imbocco del canyon, aveva iniziato ad indietreggiare, rinunciando alla sfida.
Più indietro, il branco con le fattrici e gli esemplari più giovani era in cerca di un corso d’acqua a cui abbeverarsi.
Aksil, con il manto dardeggiante nella luce del pomeriggio maghrebino, si avviava a tornare verso il branco, dopo la vittoria.
Il giovane che aveva osato sfidarlo lo seguiva a distanza reverenziale.
Giunto alla mandria, che aveva trovato ristoro presso una piccola radura, Kahina si era subito avvicinato.
Il puledro aveva accolto il papà con il suo modo unico di carezzargli il mento col muso, poi gli aveva porto alcune foglie di salvia selvatica.
Nato da pochi mesi, il piccolo cresceva forte ed esuberante, proprio come il genitore. Ed era il suo orgoglio.
Quando cavalcavano insieme sugli altipiani vicini al mare, Aksil doveva mettersi di traverso, a volte, per placare la sua corsa.
Una volta, nei pressi della Rupe dei Malanchi, aveva rischiato grosso e riacciuffato il piccolo per la coda.
Lo stallone, ormai giunto nel gruppo, aveva ricevuto riconoscimento dalle fattrici e dagli altri membri. Stanco, poi, si era sdraiato per il meritato riposo, Kahina di fianco, come ogni sera.
L’alba del nuovo giorno profumava di fiori di cardo e rose selvatiche.
Aksil, una volta sveglio, aveva deciso di cavalcare fino al mare, seguito da Kahina, naturalmente.
Il puledro trotterellava allegramente tra la macchia spontanea della scogliera. Tra una corsa e l’altra si fermava a brucare un po’ di erba che vento e mare avevano reso salata, per la gioia della sua gola.
Ogni tanto il papà lo richiamava perché si avvicinava troppo al dirupo.
Ed è proprio in prossimità di un precipizio, che Kahina aveva intravisto tra le foglie qualcosa che non aveva mai visto.
-“Guarda papà. Che bel fiore”
-“Non è un fiore, Kahina, è una stella marina….Non so come ci sia finita qui”
-“Perché, non cresce qui sugli scogli?”
-“No, vive nel mare oppure su quegli scogli qui sotto, bagnata dalle onde. Vedi come si muove lentamente?”
-“Sì, è vero, si muove, ma pochissimo”
-“Sta morendo”
-“Oh no, perché?”
-“Vedi, come noi abbiamo bisogno dell’aria per vivere, lei ha bisogno del mare per respirare”.
-“Cosa possiamo fare per salvarla, papà?”
-“Dobbiamo rimetterla in acqua”. E così dicendo, Aksil, chinò la testa a terra, e con uno scatto face saltare la stellina sul muso.
“Fai ridere così papà” – disse divertito il puledro.
Il maestoso capobranco, con un altro scatto, issò la stella in groppa. Infine, con un imperioso movimento delle zampe posteriori, la lanciò di sotto, lì dove le onde dell’oceano lambivano le rocce.
L’echinoderma inizialmente rimase immobile sulla roccia, poi, piano piano, inizio a muoversi sinuosamente fino a guadagnare il mare aperto.
Kahina era un po’ dispiaciuto di aver dovuto abbandonare quel bellissimo fiore, ma poi pensò che in mare aperto, la piccola stella sarebbe stata felice di nuotare libera, proprio come lui quando cavalcava a perdifiato di fianco al suo papà.
Aksil e il suo piccolo decisero di fare ritorno verso l’armento. Mentre cavalcavano, lo stallone percepì un odore che conosceva, e che sapeva di pericolo.
La stagione delle piogge aveva spinto una tribù nomade a tornare in quei luoghi.
Doveva assolutamente avvertire il branco e condurlo al sicuro. Così, decise di cavalcare più forte che poteva. Ogni tanto controllava che dietro lo seguisse Kahina.
In prossimità di un ruscello, il capobranco vide suo figlio che era in difficoltà. Decise, dunque, di tornare indietro per aiutarlo.
Lo aveva quasi raggiunto, quando dalle colline intorno scese un gruppo di uomini, a cavallo.
In un attimo circondarono il puledro.
Aksil cercò di spaventare i cavalli rampando e scalciando. Si fece in mezzo al gruppo, ma ormai il piccolo era stato imbrigliato.
Lo stallone allora puntò il cavaliere che reggeva le redini. Gli andò addosso con tutta la forza che aveva.
L’uomo estrasse da sotto il mantello un khajar, un lungo coltello, e con un rapido gesto, aprì una ferita sulla fronte dell’animale.
Il sangue scorreva copioso, impedendogli di vedere i movimenti del nemico.
Sentì che qualcosa gli cingeva il collo. Rampò di nuovo e riuscì a liberarsi dalla presa.
Scalpitando riuscì a farsi largo, ma non vedeva nulla.
Gli uomini ne approfittarono per allontanarsi, portando con sé Kahina.
Aksil fece ritorno al branco, doveva pensare a difendere la mandria e pianificare come salvare il suo piccolo.
Kahina, spaventato, si lasciava trascinare dagli uomini a cavallo. A volte le zampe non reggevano, e crollava a terra. Allora l’umano rallentava consentendogli di riprendere le forze.
L’accampamento si trovava non molto distante dal ruscello, poco prima che questo si gettasse in mare.
Subito le donne, vedendo tornare i compagni, si erano avvicinate, contorniate dai bambini.
L’uomo che lo aveva imbrigliato scese da cavallo, si avvicinò al puledro e lo carezzò sulla testa.
Allora il piccolo iniziò a scalpitare tirando la corda all’indietro più che poteva. Niente, non riusciva a liberarsi. Stremato, cadde di nuovo a terra. L’uomo ordinò che gli fosse portata dell’acqua.
Una bambina sugli otto anni, abbigliata nei tipici costumi berberi, gli si fece vicino porgendogli un po’ di acqua e qualche foglia di erba fresca.
Kahina la guardò per qualche istante, poi accettò il ristoro.
Jannat lo carezzò sul muso per tutto il tempo del pasto, sorridendo. Quando il puledro si addormentò, senza forze, la bambina assicurò la corda ad un albero e scomparve in una tenda.
Aksil, durante la notte si svegliò di soprassalto. Per un attimo pensò fosse stato solo un sogno, ma poi vide che non c’era il suo piccolo accanto. Richiuse gli occhi. Ogni volta che compiva questo movimento la ferita gli doleva, ma era ormai secca, in via di guarigione.
Doveva riposare, non pensare a quanto Khaina si potesse sentire vulnerabile e solo. La notte successiva lo avrebbe riportato a casa, e tutto sarebbe diventato solo un brutto ricordo.
La giornata successiva il capobranco condusse la mandria in un luogo sicuro, più lontano rispetto all’accampamento berbero. Era un’area verdeggiante, al di là di un arido promontorio. Dopo aver messo al sicuro gli altri, era ritornato sui suoi passi, fino in prossimità dell’accampamento.
Giunto qui, si era nascosto dietro un albero di argania e, immobile, aveva atteso che scendesse la notte.
Con l’approssimarsi della sera le donne avevano iniziato a preparare la cena per tutta la tribù. Dopo poco, seduti attorno al fuoco, gli uomini avevano cominciarono a consumare il cibo in silenzio. Donne e bambini mangiavano in disparte. Ogni tanto un bimbo lasciava la mamma e andava a saltellare in mezzo ai pastori, o a stuzzicare le caprette.
In un recinto poco distante dalle tende, le capre dormivano già. Kahina, legato con una corda ad un palo del recinto, si guardava intorno spaurito.
Aksil attese che tutti si fossero ritirati, e iniziò ad avanzare cercando di fare meno rumore possibile.
Girò intorno all’accampamento a una distanza di sicurezza, cercando suo figlio. Giunto in direzione del recinto di capre sentì un nitrito. Era proprio lui, il suo piccolino.
Il cavallo allora iniziò ad avvicinarsi. Kahina lo vide e prese a nitrire dalla gioia.
Il papà gli fece cenno di tacere. Poi, iniziò a mordere la corda con forza, doveva liberarlo al più presto. Dopo vari tentativi ancora non ci era riuscito. Sentì dei passi, erano dietro di lui.
Aksil si agitò e rampò minaccioso contro il nuovo arrivato.
Era la piccola Jannat .
La bambina, impaurita, si rannicchiò a terra. Per un paio di minuti nessuno si mosse. Poi, iniziò a rialzarsi molto lentamente, e a piccoli passi si avvicinò a Kahina.
Lo guardò dritto negli occhi e, con un rapido gesto della mano, liberò il puledro dalla corda.
Aksil e Kahina fuggirono all’istante, cavalcando furiosamente nella notte.
Il puledro correva con tutta la forza che aveva in corpo, il padre, invece, doveva continuamente rallentare l’andatura per rimanergli vicino.
Sembrava che nessuno si fosse accorto della fuga, ma la corsa non poteva arrestarsi, almeno fino a quando fossero arrivati ai piedi del promontorio.
Quando raggiunsero le rocce che costeggiavano il mare, Aksil si pose tra il precipizio e il suo piccolo, per sicurezza.
Nelle vicinanze della rupe dei Malanchi, Kahina, in una curva insidiosa, sbandò. Il papà, prontamente, si fece vicino e parò il piccolo, che gli andò a sbattere contro con forza. Si guardarono negli occhi per un istante, poi cercarono di ripartire. Aksil non si era reso conto di essere finito così vicino al precipizio.
Scalciando le zampe posteriori, sentì che la terra sotto gli zoccoli si stava frantumando.
Kahina lo guardava, immobilizzato dal terrore.
Se il terreno avesse ceduto, il suo papà sarebbe stato inghiottito dalle onde del mare che si frangevano impetuose sugli scogli sottostanti.
Aksil riuscì a guadagnare qualche centimetro, poi, avvertì il vuoto sotto di sé.
Kahina chiuse gli occhi, ma il padre non aveva alcuna intenzione di desistere.
Sotto lo zoccolo, inaspettatamente, sentì una roccia resistente e con un disperato sforzo delle reni, balzò finalmente sulla terraferma.
Nello stesso momento, la roccia franò completamente.
I due guardarono il baratro che si era aperto sotto di loro.
Poi, senza altri indugi, ripresero la corsa verso il branco che li aspettava, verso la salvezza, felici di essere di nuovo insieme.
In quel momento, le prime luci del sole iniziavano ad illuminare i vasti altopiani del Maghreb.
Una piccola stella di mare, guardando in su attraverso il pelo dell’acqua, aveva osservato tutta la scena.
Aveva riconosciuto in quel padre affettuoso e coraggioso, il cavallo che qualche giorno prima l’aveva riconsegnata all’oceano, salvandole la vita.
Ammirata da tanta forza e nobiltà d’animo, l’asteroidea desiderò ardentemente diventare allo stesso modo, indomita e senza paura.
In un balletto di mille bolle bianche un piccolo vortice marino l’avvolse.
I bracci della stellina si fusero, il corpo si allungò.
Ne uscì fuori un nuovo animale, un cavalluccio marino, una delle creature più fiabesche che ancora oggi popolano il nostro pianeta.
Elena Bevilacqua, tratto dalla raccolta “Sotto il Vulcano”, Rudis Edizioni