“Siete contente di essere donna?” ,nel libro di Andrea Cerra una riflessione tra emancipazioni e contraddizioni

Che cosa significa essere “contenta” di essere donna? La domanda sembra semplice, quasi ingenua, ma porta con sé un carico politico e storico tutt’altro che banale. È questa la provocazione contenuta nel titolo del libro di Andrea Giuseppe Cerra, Siete contente di essere donna? Esperienze di filantropia e istituzioni femminili nel Meridione d’Italia (XIX-XX sec.), pubblicato da Rubbettino nel 2024.
Non si tratta di una storia delle “grandi donne” della politica o della letteratura, ma di una storia politica e sociale, non solo “di genere”, che coinvolge istruzione, lavoro, carità, cittadinanza: una genealogia delle pratiche quotidiane e collettive attraverso cui le donne del Sud, tra Ottocento e Novecento, hanno trasformato la loro condizione senza far rumore, nei margini della visibilità pubblica. Un lavoro sulla storia delle donne, dunque, ma anche — e soprattutto — un lavoro sulla costruzione sociale della cittadinanza femminile, condotto dentro e contro le istituzioni.
Cerra indaga esperienze concrete: dalle Pie Sorelle alle cooperative, dalle scuole popolari alle attività filantropiche. Sono esempi di potere femminile sommerso, esercitato non attraverso la rottura frontale, ma attraverso l’invenzione di spazi e ruoli sociali alternativi. Donne che, pur escluse formalmente dalla cittadinanza, educano, assistono, organizzano, trasmettono saperi.
È questa la loro forza: l’emancipazione attraverso la relazione, la costruzione di reti di solidarietà, la creazione di senso civico fuori dal dominio dello Stato.
Ma le istituzioni non sempre aiutano. Anzi, spesso reprimono, normalizzano, escludono. Un esempio emblematico arriva dalla Sicilia agli inizi del Novecento. In un momento in cui l’industria comincia a diffondersi anche nel Mezzogiorno, il lavoro femminile nel settore tessile assume una certa rilevanza. Tuttavia, con l’introduzione delle prime leggi previdenziali, pensate per tutelare anche la manodopera femminile, accade l’impensabile: le donne vengono allontanate dalle fabbriche e spinte nuovamente verso il lavoro a domicilio, informale, sottopagato, invisibile.
Una legge di tutela che, nella pratica, diventa un dispositivo di esclusione. Non un’eccezione, ma una logica ricorrente nel rapporto tra donne e Stato.
Il libro mostra con chiarezza quanto l’emancipazione femminile sia sempre stata segnata da un’ambiguità strutturale: le stesse istituzioni che offrono istruzione, assistenza e lavoro, spesso fissano i confini del possibile, dettano norme morali, definiscono cosa può essere una “vera donna”.
In questo senso, il potere esercitato dalle donne nel Sud d’Italia tra XIX e XX secolo è un potere insieme resistente e creativo, capace di produrre senso anche là dove lo Stato non arriva, o arriva per normalizzare.
Un esempio particolarmente significativo di questa ambivalenza istituzionale riguarda la figura della mammana. Cerra dedica pagine molto efficaci a raccontare come, tra Ottocento e primo Novecento, queste donne rappresentassero un punto di riferimento essenziale nella vita femminile, custodi di un sapere corporeo, esperienziale e relazionale che si trasmetteva da donna a donna, al di fuori di ogni riconoscimento ufficiale. Erano figure di cura, di mediazione sociale, di solidarietà concreta.
Ma proprio mentre prende forma una nuova possibilità di riconoscimento — basti pensare alla nascita delle prime scuole universitarie di ostetricia, come quella di Catania — si verifica anche l’espropriazione di quel sapere femminile. Le levatrici vengono professionalizzate, ma a condizione di sottomettersi al sapere medico maschile, al controllo del chirurgo, alla logica ospedaliera. Il parto si sposta dall’ambiente domestico alla clinica, e con esso si perde non solo una pratica, ma una rete di relazioni, di linguaggi, di potere femminile silenzioso.
Anche qui, l’emancipazione si rivela ambigua: si ottiene dignità sociale, ma al prezzo della perdita di autonomia. Un sapere comunitario, condiviso, viene trasformato in competenza tecnica subordinata. È il simbolo di una modernità che, pur aprendosi alle donne, continua a parlare con voce maschile.
E oggi? Chi sono le eredi delle Pie Sorelle, delle educatrici filantrope, delle organizzatrici silenziose? Forse sono le operatrici sociali, le insegnanti precarie, le attiviste dei centri antiviolenza, le madri sole che fanno politica con il gesto quotidiano. Anche oggi, come allora, esiste una cittadinanza femminile fatta di margini, di relazioni, di cura — e spesso lasciata fuori dalle narrazioni ufficiali.
“Siete contente?”
Cerra ci invita a non leggere la storia delle donne come una semplice linea di progresso. Non basta conquistare un diritto, se le condizioni materiali continuano a produrre esclusione. Non basta entrare nelle istituzioni, se quelle stesse istituzioni continuano a riprodurre logiche patriarcali.
La domanda “Siete contente di essere donna?”, allora, si rivolge anche a noi, oggi. Non per ottenere una risposta, ma per aprire uno spazio critico.
Una risposta possibile — la più onesta, forse — non è un sì né un no, ma un invito alla vigilanza:non siamo contente, siamo consapevoli. Non adattiamoci. Trasformiamo.