Il voto sul nuovo Patto di stabilità in Europa e la posizione conservativa dell’Italia

L’appartenenza europea poggia storicamente su principi di cooperazione economica a partire dai Trattati istitutivi di Parigi e Roma degli anni ’50. Tale impostazione, poi, nel corso del tempo non è sostanzialmente mutata e, se da una parte, sono state allargate le competenze dell’Unione europea ricollegando la prevalenza delle norme adottate dagli organismi europei preposti, dall’altra la materia economica ha continuato a manifestare una certa rilevanza nell’assetto di interessi su cui si sviluppa la fisionomia dei Paesi dell’Unione.
Questo è il contesto nel quale matura il cosiddetto “Patto di stabilità”, il quale assume lo scopo di fornire regole destinate agli Stati membri per contenere l’indebitamento e favorire il risanamento di quelli più esposti come l’Italia, attraverso una cornice normativa unitaria, finalizzata a stabilire in materia processi di armonizzazione e di libera concorrenza in un mercato europeo comune, limitando così l’intervento dello Stato e i suoi aiuti (subordinati, infatti, all’autorizzazione della Commissione europea secondo quanto previsto nei Trattati).
Negli ultimi giorni si è quindi discusso di una revisione del Patto di stabilità, il quale si caratterizza per la previsione di alcuni punti: i piani di rientro concordati dai Paesi avranno una durata di quattro anni, estendibili a sette, in virtù di riforme che migliorino il potenziale di crescita e la sostenibilità dei conti pubblici. Così da riconoscere più tempo sul risanamento saranno considerati anche gli impegni sul Pnrr, mentre Recovery e cofinanziamento nazionale dei fondi Ue per il biennio 2025-2026, saranno considerati per agevolare possibili eccezioni a un rientro dei conti anno per anno e senza rinvii.
La Commissione comunicherà agli Stati una Traiettoria di riferimento per porre il debito in un percorso discendente sostenibile e calcolata con metodologia data. Quest’anno sarà annunciata con il “Pacchetto di primavera” nella seconda metà di giugno. Gli Stati, pertanto, dovranno predisporre dei piani pluriennali di spesa entro il mese di settembre, dovendosi attenere strettamente anno per anno con massimali di sforamento.
La Traiettoria dovrà comunque portare a una riduzione media annua minima pari all’uno per cento del rapporto debito pubblico/Pil per i Paesi il cui debito superi il 90% del Pil come l’Italia, di converso lo 0,5% per chi possiede un debito con una forbice tra il 60 e il 90%. Rileva inoltre una clausola di salvaguardia destinata ad impegnare gli Stati con deficit/Pil già entro il tetto del 3% e di ridurlo più marcatamente in ordine alla metà della percentuale suddetta.
I Paesi che sforano il tre per cento del deficit saranno tenuti a realizzare un aggiustamento strutturale dei conti per almeno lo 0,5% del Pil; analoga procedura prende avvio per i casi di debito eccessivo, e se i Paesi non rispettano gli impegni sui piani di spesa.
Sempre a giugno si apriranno gli iter previsti per il disavanzo con i report della Commissione, e secondo i dati divulgati da Eurostat, nel 2023, undici Paesi dell’Unione riscontravano un deficit superiore al 3%. A sostegno della procedura è finanche contemplato un regime sanzionatorio fino allo 0,05% del Pil.
La procedura terrà conto degli avanzamenti sulle riforme e gli investimenti, ivi compresi quelli del Pnrr, nonché dell’aumento di investimenti nel settore della difesa. In via transitoria, inoltre, si terrà conto dell’aumento dei pagamenti degli interessi sul debito quando uno Stato si impegna a un dato insieme di riforme e investimenti.
Il Parlamento europeo riunito in sessione plenaria ha quindi approvato in via definitiva la riforma del Patto di stabilità, ossia l’insieme di complesse regole fiscali a cui sono sottoposti tutti gli Stati membri dell’Unione Europea.
Il governo italiano aveva negoziato per diversi mesi i punti del testo, per poi approvarlo nel dicembre del 2023 in sede di Consiglio dell’Unione Europea – l’organo in cui sono rappresentati gli esecutivi dei ventisette Paesi membri – sulla scorta di una proposta originaria formulata ad opera del Commissario europeo agli Affari economici, l’italiano ex Presidente del consiglio Paolo Gentiloni.
Nonostante il Patto sia stato concepito da un importante esponente del Pd, e sia stato approvato dall’attuale ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, al voto finale nessun partito italiano rappresentato al Parlamento Europeo si è espresso favorevolmente al testo: quasi la totalità ha preferito il percorso dell’astensione, mentre il Movimento 5 Stelle ha votato a sfavore. Una sparuta minoranza, di soli tre europarlamentari italiani presente in Parlamento, ha invece votato per il sì alla riforma.
Nessun partito italiano, in verità, ha voluto “intestarsi” sotto il profilo politico l’approvazione del Patto. In esso sono ricomprese delle norme considerate ab origine più morbide rispetto al passato, ma quelle più austere è pur vero che non sono state mai applicate, quindi non risulta perfettamente evidente quale possa essere lo sviluppo futuro in relazione all’Italia. Tanto può supporsi, dipenderà anche da come la nuova Commissione Europea provvederà ad interpretarle; tale organismo europeo è quello che ha il compito di monitorare le politiche fiscali dei governi nazionali. Nel dubbio, probabilmente anche per le questioni inerenti l’ormai vicina tornata elettorale che vi sarà per il rinnovo del Parlamento europeo, nessun partito, ha voluto schierarsi favorevolmente.