La “126” di Claudio Fava ed Ezio Abate alla Sala Verga

Dal 28 aprile al 7 maggio è in scena alla sala Verga del Teatro Stabile di Catania:“126”
Una pièce tratta dall’omonimo romanzo (2022) di Claudio Fava -giornalista, politico, autore e sceneggiatore catanese notissimo a livello nazionale, e non solo- ed Ezio Abbate anch’egli soggettista e sceneggiatore.
La drammaturgia, le scene e la regia sono di Livia Gionfrida (assistente alla regia Giulia Aiazzi).
Protagonisti: David Coco, Naike Anna Silipo, Gabriele Cicirello
Disegno delle luci di Alessandro Di Fraia
Produzione: Teatro Stabile di Catania e Teatro Biondo di Palermo
È la notte del 19 luglio 1992, quella che precede la strage di via D’Amelio che mise fine alla vita del giudice Paolo Borsellino e di Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina: gli agenti della sua scorta.
Ma il pubblico non lo sa…gli autori non lo dicono.
Sulla scena soltanto tre protagonisti prigionieri di una trappola malavitosa (mai però la parola ‘mafia’ sarà pronunciata!).
Gaspare (“ma tutti mi chiamano Gasparo perché a Palermo i nomi devono finire con la o. Gaspare pare il nome di una pulla), a trent’anni pensa di aver conquistato una certa posizione (“Mi chiamo Gasparo e faccio il killer”) specie dopo il salto di qualità (“… s’è messo una mano in tasca, ha tirato fuori una Renato Gamba 38 special con la canna da due pollici e mezzo. Nera. Pulita. Un gioiellino… Totuccio mi ha preso il palmo della mano e ci ha poggiato sopra la pistola”).
Ma entra in crisi davanti alla richiesta di un semplice furto d’auto, un ordine del suo boss ‘Totuccio Graziano, quello che tutti chiamano Domineddio’: “Una centoventisei, ripeto io, così piano che nemmeno mi sento. Ho ammazzato ventotto cristiani, con i cavalli ho perso il conto: perché non gliela fai rubare a tua sorella questa centoventisei? È quello che penso.
Quello che dico invece sono cinque parole: va bene, una centoventisei, stanotte…”.
Perché al ‘capo’ bisogna obbedire per salvaguardare il lavoro “perché a Palermo di lavoro ce n’è poco. Io poi conosco lavori peggiori…” (!!!).
Gli si comanda anche di farsi accompagnare (“In due per fotterci una macchina: che minchia vuol dire? E poi chi è questo qui? A me piace lavorare da solo”.
Il complice prescelto è Cristoforo, detto Fifetto, uno scunchiurutu, una nuova leva in attesa di fare carriera e felice dell’occasione che gli si offre: “Cosa cazzo ho fatto di buono? Me lo chiedo da stamattina. Voglio dire, dopo tutto questo tempo passato a farmi notare, a chiedere a destra e a manca di mettermi alla prova, sì, insomma di farmi entrare nella famiglia di Domineddio… Uno sogna e poi i sogni si avverano? Oh, mi dovete capire, sono contento… È che ormai ci avevo messo una pietra sopra… e poi da zero a mille: perché io questo Gasparo lo conosco, ed è uno grosso… È un killer: minchia che killer!”.
È la realizzazione del suo sogno di sempre: “perché uno deve avercelo un sogno… Non mi vergogno a dire che voglio diventare il killer dei killer di Palermo”.

Anche Cosima, la moglie di Gasparo, felice del bambino che sta per partorire dopo alcuni aborti spontanei è inserita, vittima cosciente e al contempo ‘innocente’, nell’ingranaggio criminoso: “Mi chiamo Cosima, c’ho ventinove anni e mio marito è mafioso. Ma è pure un bravo cristiano, un lavoratore, uno che si toglie gli occhi dalla faccia per farmi stare bene. Solo che il suo lavoro è quello: fare cose tinte. Le faceva pure quando l’ho conosciuto”.
È convinta di aver perso i figli come punizione divina tanto da chiedere a Gasparo il ‘voto’ di non compiere omicidi fino alla fine della gravidanza: “Adesso per esempio mi ha promesso che se ne sta buono, che prima vuole fare nascere il bambino”.
E infine la silenziosa 126, “sotto il sole di Palermo, una domenica di luglio, nella luce calda del pomeriggio. Parcheggiata, in attesa di fare il compito suo.”
Ma il pubblico non lo sa…gli autori non lo dicono.
Tutto si svolge in una calda notte palermitana. Fino al sorgere di una imprevedibile alba sporca del sangue dei nostri personaggi.
Con cruda ironia e raffinato sarcasmo gli autori operano un capovolgimento di prospettiva sostituendo la cronaca giudiziaria con la quotidianità aberrante di chi agisce senza voler capire i meccanismi della ‘trappola’: non si può fuggire; bisogna accettare e subire.

È il trionfo della ‘banalità del male’ in un mondo guidato da contro-regole e contro-valori, popolato da individui che si muovono, quasi inconsapevoli, innocentemente colpevoli, seguendo i loro contro-sogni, accettando una sorta di ‘fato’: un male del vivereche conduce alla morte: “ubbidisco o muoio, uccido o vengo ucciso”. È anche l’amara, disperata, riflessione cui giunge Cosima prima di essere ammazzata: “E io ti faccio nascere qui sul marciapiede. Mi apro il corpo, mi strappo la carne con le unghie e ti tiro fuori, figlio mio…A Palermo…ci sono due specie di uomini: quelli che uccidono e quelli che muoiono. Tu, figlio mio, che uomo sarai?”
A trent’anni da quell’evento nessun ‘j’accuse’ per i protagonisti da parte degli autori. Solo l’invito a non dimenticare.