La ‘Ndrangheta invade il Nord

Altre 17 misure cautelari tra Milano e Pavia.
Ancora operazioni della Guardia di Finanza che ha condotto una vasta azione di contrasto alla ‘ndrangheta con otto indagati che sono finiti in carcere mentre cinque ai domiciliari. Si tratta di una serie di accuse piuttosto gravi e pesanti che vanno dall’associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti alla detenzione illegale di armi e di estorsione aggravata dal metodo mafioso. Questo gruppo criminale secondo gli inquirenti, “aveva la disponibilità di armi automatiche, come i noti mitragliatori kalashnikov” e si avvaleva di “società costituite ad hoc ma di fatto inattive” per nascondere i profitti attraverso l’emissione di fatture false. Il raggio dell’azione repressiva dei finanzieri è stato portato avanti tra Milano, Torino, Reggio Calabria e Pavia. Sono stati impiegati un massiccio spiegamento di militari, oltre cento, che hanno eseguito le 17 misure cautelari, emesse dal Gip di Milano Raffaella Mascarino su richiesta del Pubblico Ministero Gianluca Prisco proprio nei confronti di soggetti vicini legati alle cosche criminali di Platì (Reggio Calabria) che da tempo si sono trasferite al Nord. In una nota la Guardia di Finanza fa sapere che l’indagine “iniziata nella primavera del 2019 è stata caratterizzata dal costante monitoraggio dei soggetti originari del Reggino e da tempo stanziati nei territori compresi tra le province di Pavia e Milano”, dove i criminali svolgevano le attività illecite “seguendo condotte tipicamente mafiose. Questi atti estortivi sono stati esercitati “nei confronti di soggetti che ritardavano a pagare lo stupefacente, ricorrendo alla forza intimidatrice, sovente manifestata con la prospettazione nei confronti delle loro vittime di gravi conseguenze ove non avessero saldato i propri debiti nei tempi richiesti dai sodali”.
“Per supportare le proprie capacità operative, per perpetrare le estorsioni e il traffico di droga o anche per fronteggiare qualsiasi tipo di minaccia proveniente dall’esterno”, continua la nota, il sodalizio “aveva la disponibilità di armi automatiche, come i noti mitragliatori kalashnikov, riforniti da altra cellula calabrese collegata. Al fine di rendere, poi, oltremodo difficile l’individuazione dei proventi delle attività delittuose (…)” e i ‘ndranghetisti utilizzavano “società di servizi ed imprese edili, costituite ad hoc ma di fatto inattive, che tramite l’emissione di fatture false avrebbero potuto occultare i proventi illeciti sfruttando anche la complicità di almeno un professionista per presentare bilanci e dichiarazione dei redditi opportunamente “adattati””. In questo senso i componenti della ‘ndrangheta trattavano “considerevoli quantitativi di cocaina e marijuana, immessi nella rete di distribuzione, vendita e consumo anche con l’intento di rifornire gruppi criminali a loro collegati della Lombardia, del Piemonte, della Liguria e in Toscana”. Da questo punto di vista un ruolo di rilevanza era svolto da “alcune figure femminili, congiunte dei principali indagati, che pur svolgendo una funzione servente o secondaria, hanno comunque dato un contributo reale ed effettivo per la commissione dei reati.
Infatti, in più occasioni, è stato rilevato il loro supporto durante le operazioni di prelievo, consegna e confezionamento dello stupefacente nonché durante le operazioni di conteggio dei proventi illeciti incassati”.
I nomi degli indagati finiti nel mirino degli inquirenti sono abbastanza noti alla giustizia e in particolare spicca quelli di Rocco Barbaro, 29 anni, e del padre Antonio di 53, appartenenti alla “celebre” famiglia ‘ndranghetista di Platì. Sono cento le pagine di cui si compone l’ordinanza di custodia cautelare e in questo ambito vengono riportate numerose intercettazioni dai toni duri, cruenti e violenti che mostrano con evidenza la pericolosità degli indagati Barbaro, padre e figlio, che sono stati protagonisti in solido nella gestione del narcotraffico e nelle attività criminali ad esso strumentali di armi ed estorsioni.