I partiti di massa e la democrazia. Strumento e fine di un rapporto spesso complicato

La relazione che lega i partiti all’esercizio della democrazia si consuma secondo modalità per nulla lineari, sia dal lato delle Istituzioni chiamate ad accogliere i partiti sia dal lato di quest’ultimi. Un rapporto agevole per i partiti che nacquero in parlamento, i cosiddetti partiti legislativi o parlamentari, mentre tutt’altro matura rispetto ai partiti esterni al parlamento, i quali dovevano rappresentare larghe masse di esclusi sia dai diritti politici che da quelli sociali.
Rappresentare masse di esclusi, in gran misura analfabeti e non adusi alla partecipazione politica, significava per i nuovi partiti di massa assumere immani funzioni di acculturazione, educazione e formazione, canalizzazione ed espressione delle istanze pervenute.
Si tratta di un fenomeno che nasce nella storia, esattamente nei primi anni del novecento, declinato in quattro successive fasi, anche conflittuali, ben formulate in una famosa prolusione all’indomani dell’avvento dei partiti di massa: quella dell’aperta ostilità dello Stato verso i partiti, quella dell’indifferenza, quella del riconoscimento giuridico e, per finire, quella dell’incorporazione e della legittimazione su cui si impernia, peraltro, l’art.49 della Costituzione.
Per completare le fasi e le soglie occorrevano però due requisiti: sul versante dello Stato che si superasse il secolare pregiudizio che aveva visto il partito come fazione, come elemento di divisione e di perturbazione dell’armonia del corpo sociale; dal lato dei partiti, invece, che fossero funzionali alla democrazia, evitando posizioni antisistema.
In Europa continentale, e pertanto anche in Italia, vengono fuori, nel lungo passaggio dai regimi autocratici prima e oligarchici poi, partiti extraparlamentari espressione di movimenti sociali che trovavano nei conflitti e nelle ingiustizie sociali la loro identità primaria, e che dunque dovranno affrontare una lunga fase di integrazione nelle strutture istituzionali dello Stato che diventava, progressivamente, anche sulla scorta delle sollecitazioni di questi partiti extraparlamentari, uno Stato di massa. Sono i partiti di massa ideologici e di classe – socialisti prima, comunisti poi -, a porsi in principio come antagonisti dello Stato. Questi partiti, per tali ragioni, erano percepiti dalle vecchie élite come i nuovi “barbari”.
Appaiono, poi, i partiti totalitari di stampo fascista, tali da fagocitare lo Stato, e che divengono partiti unici, soppiantando il pluralismo, il diritto delle minoranze e di tutte le libertà che ne scaturivano e che invece restavano gravemente soppresse. Si spiega così la caduta delle democrazie in regimi democratici già presenti in Europa, si pensi a Weimar o alla Francia della IV Repubblica. E quando non si realizza il crollo della democrazia, cosa che non è mai avvenuta nelle democrazie anglosassoni, rileva l’effetto assai pericoloso dell’ingovernabilità.
Ma sorge quindi una domanda: cos’è il partito di massa del secolo socialdemocratico? Non è soltanto una organizzazione solida, formata da tantissimi iscritti, di radicamento territoriale diffuso, da uno stuolo di funzionari di professione, da un numero di dirigenti a livello di base, intermedi, nazionali, da una struttura gerarchica che dalla periferia arriva al centro, da una ideologia, comunque da una cultura politica espressione di una visione generale e complessiva.
Esso soprattutto è un sistema, un insieme di organizzazioni collaterali, dai sindacati alle case del popolo, dalle organizzazioni giovanili alle società sportive e alle cooperative, dai giornali e dall’editoria di partiti ai centri culturali e di ricerca, insomma da organizzazioni che coprono e accompagnano le attività degli iscritti.
Lo schema classico si configura nella socialdemocrazia tedesca di fine Ottocento; rientravano in questo modello sia i partiti come il vecchio PCI, sia i partiti non di origine di classe come la DC, od ancora i partiti inglesi, tedeschi e persino americani.
Il partito di massa si innervava estendendosi trasversalmente nelle articolazioni della società, costituendo un network di organizzazioni. In alcuni casi la penetrazione poteva avvenire dall’alto, dalle leve del comando governativo centrale o locale, potendo quindi parlarsi di colonizzazione o occupazione partitica dello Stato e della società, abusando, però, del potere che le posizioni di governo determinavano.
Se è vero che il partito di massa va analizzato non soltanto per le caratteristiche organizzative interne, bensì in virtù della sua compenetrazione con e nella società, per il suo essere un network di organizzazioni e associazioni, il punto allora è che esso presuppone una società che si fa intermediare, una società che si organizza mediante una pluralità di enti intermedi e di corpi sociali, prolifica di associazionismo diffuso. Presuppone, inoltre, una rappresentanza basata su questa società, cioè una società non atomistica nella quale i soggetti non si connettono alle Istituzioni in modo singolare e verticale, ma per il tramite di aggregazioni sociali, di cui il partito politico è la proiezione principale, e attraverso identità e appartenenze collettive che si nutrono proprio della natura societaria del partito politico. Per il partito di massa, dunque, risulta indispensabile ruotare intorno ad una società contraddistinta da siffatte peculiarità allo scopo di riuscire ad esercitare la funzione a cui è sostanzialmente asservito, viceversa si rompe il collante che li lega ed interfaccia alla società civile e alle domande derivanti da quest’ultima.