Corazzata Roma

Nelle condizioni imposte all’Italia dall’ “armistizio corto” del 3 settembre 1943, la sorte della Regia Marina occupava un posto di rilievo. È vero che dal confronto bellico con la Mediterranean Fleet era uscita sostanzialmente perdente, ma rimaneva sempre un formidabile strumento di guerra del quale gli Alleati intendevano scongiurare un passaggio in mano tedesca. Lo Short Armisticeimponeva pertanto il “trasferimento immediato della flotta italiana in quelle località che saranno designate dal Comandante in capo alleato”; l’ “armistizio lungo” firmato alla fine del mese, ne avrebbe previsto anche l’utilizzo bellico in collaborazione con le navi angloamericane.
Le clausole armistiziali vennero peraltro tenute segrete da Badoglio, preoccupato anzitutto di assicurare la sicurezza del governo e della famiglia reale dalla prevedibile reazione tedesca. Anche dopo la firma, le Forze Armate ricevettero quindi ordini improntati al principio “la guerra continua”. In tale quadro, la mattina dell’8 settembre il comandante della Flotta da Battaglia, ammiraglio Carlo Bergamini, venne convocato dal ministro De Courten: gli ordini ricevuti non erano di preparare il trasferimento della flotta, bensì il suo impiego bellico contro l’imminente sbarco alleato a Salerno.
Bergamini rientrò in auto a La Spezia, dove si trovava la Squadra navale, e solo lì ricevette l’annuncio dell’armistizio e l’ordine di lasciare gli ormeggi. Dovette gestire una situazione molto difficile: per un ufficiale di Marina è assai difficile accettare di compiere un atto che rischia di preludere ad una consegna delle navi, e nel rapporto immediatamente tenuto l’ammiraglio dovette registrare una forte corrente di opinione favorevole, se non ad un passaggio con i tedeschi, almeno ad un autoaffondamento. Che è peraltro ciò che in condizioni simili avevano fatto non solo la Flotta d’altro mare tedesca internata nel 1919 a Scapa Flow, ma più di recente, nel novembre 1942, quella francese a Tolone dopo l’operazione Torch.
L’ammiraglio riuscì tuttavia a superare ogni riluttanza non solo con il richiamo al dovere di obbedire agli ordini, ma anche perché lo Stato Maggiore della Regia Marina ordinava il trasferimento non in un porto alleato, ma in quello italiano di La Maddalena. A questo punto, alle 3 del mattino del giorno 9, la flotta lasciò gli ormeggi facendo rotta a ponente della Corsica; giunte nel golfo del’Asinara, intorno alle ore 12 le navi si disposero in linea di fila per superare il sistema di sbarramenti e campi minati delle Bocche di Bonifacio.
La scelta della Maddalena era tutt’altro che casuale. La base navale, protetta da un sistema di fortificazioni ancora oggi visibile, era considerata un rifugio sicuro, malgrado fosse stata oggetto di attacchi aerei che avevano, nella primavera, causato l’affondamento dei due incrociatori Trieste e Gorizia. Per questo dopo il 25 luglio vi era stato trasferito Mussolini, rimasto nell’isola per tre settimane, ed era stato in un primo tempo previsto di ricoverarvi la famiglia reale, prima che prevalesse l’opzione del viaggio verso Ortona e Brindisi; a tale scopo, erano pronti a Civitavecchia i cacciatorpediniere Vivaldi e Da Noli, ai quali verrà invece ordinato di raggiungere la Flotta da battaglia e che saranno affondati nel pomeriggio del 9, mentre tentano di forzare le Bocche.
La base era comandata dall’ammiraglio Bruno Brivonesi, discussa figura di comandante protagonista di alcuni contestati comportamenti bellici. All’armistizio, in Sardegna – che era stata considerata come un possibile obiettivo alternativo alla Sicilia dello sbarco alleato – erano presenti oltre trecentomila soldati italiani (il XIII Corpo d’Armata, con la Divisione Paracadutisti Nembo) e trentamila tedeschi della 90. Panzergrenadier Divisiontedesca, agguerrito reparto corazzato che aveva fatto parte dell’Afrika Korps. Gli ordini contenuti nella Memoria 44 diffusa dal Comando Supremo italiano prescrivevano che le forze tedesche venissero bloccate nell’isola; ma la mattina del 9 il generale tedesco Carl-Hans Lungerhausen incontrò il pari grado italiano Antonio Basso, comandante militare dell’isola, prospettandogli un’evacuazione pacifica dell’isola da parte tedesca, a patto che non fosse ostacolata: proposta alla quale il generale italiano ritenne di aderire (sarà processato per questo a guerra finita, ed assolto). Nei giorni successivi le truppe germaniche iniziarono il movimento verso i porti settentrionali dell’isola dove si imbarcarono per la Corsica, tallonati a distanza dalle truppe italiane, senza che si verificassero se non sporadici incidenti; entro il 18 l’isola era completamente sgombra.
L’operazione presentava tuttavia un punto critico, l’attraversamento delle Bocche di Bonifacio; per garantire la sicurezza del quale, a mezzogiorno del 9, mentre gli ufficiali della base maddalenina si trovavano a pranzo nei locali dell’Ammiragliato, una sessantina di militari tedeschi li presero prigionieri. Brivonesi non oppose resistenza e diede ordine di cessarla alle unità italiane che avevano aperto il fuoco sui tedeschi, ciò che non impedì il persistere degli scontri sull’isola, con morti da ambedue le parti.
L’occupazione della Maddalena vanificava il progetto di trasferirvi la flotta, che nel frattempo si trovava già nelle Bocche; non appena la notizia giunse a Roma, Supermarina diede ordine di raggiungere Bona. Dopo aver invertito la rotta, le navi vennero attaccate nel pomeriggio da una squadra di bombardieri Dornier Do217 tedeschi giunti dalla base provenzale di Istres. La corazzata Roma, ammiraglia della Squadra italiana, venne colpita da due potenti bombe a razzo teleguidate; nel giro di mezz’ora si spezzòin due ed affondò, trascinando con sé quasi 1400 dei 2000 marinai a bordo, compreso l’intero comando della Flotta da Battaglia. La squadra fece rotta su Malta, mentre alcune unità sottili raccolsero i 622 naufraghi e raggiunsero Port Mahon, nell’isola di Minorca, dove furono internate fin quasi alla fine del conflitto.
Quello del Roma è stato il singolo affondamento più sanguinoso, per numero di vittime, subito dalla Regia Marina in tutto il conflitto. Anche solo per questo, la Marina Militare lo considera come un momento fondamentale della propria storia e gli assegna un posto centrale nella sua memoria d’Arma. Ma il motivo per cui alla fine del Roma è dedicata anche dopo tanti anni molta più attenzione che – per esempio – alla ben più greve tragedia di Matapan, è anche un altro. La Marina presenta tuttora ai suoi uomini il comportamento di Bergamini come esemplare di ciò che un militare deve compiere in circostanze simili. Per quanto gravoso fosse obbedire ad un ordine come quello ricevuto, l’ammiraglio non ebbe esitazioni ed in tal senso seppe orientare il comportamento dei suoi dipendenti. Perché l’ordine veniva da un’autorità legittima, alla quale era stata giurata fedeltà, e perché in un momento tanto buio era comunque volto ad evitare alla Patria maggiori danni. In questo senso non manca mai di esprimersi chi del Roma parla portando addosso la divisa da marinaio.
La vicenda della corazzata presenta tuttavia un altro aspetto di fondamentale attualità: essa rappresenta un primo esempio di quella scelta davanti alla quale si trovarono i militari italiani in occasione dell’armistizio e che avrebbe di lì a poco coinvolto fasce crescenti della popolazione. Bergamini e i suoi avrebbero potuto seguire un modello diverso, lo avevano letteralmente di fronte agli occhi sulle rive del golfo di La Spezia: quello del comandante Junio Valerio Borghese, che avendo evitato lo sbandamento della la sua X flottiglia MAS, strinse immediati accordi con i tedeschi e collaborò con loro – combattendo sul fronte di Nettuno, ma soprattutto prestandosi alle incombenze più sporche della lotta partigiana e della guerra ai civili – sino alla fine della guerra, cui comunque molti della Decima sopravvissero.
La scelta degli uomini del Roma li portò invece per lo più alla morte, ma al tempo stesso valse a sottrarre all’ex-alleato divenuto nemico un potente strumento bellico come la Flotta da Battaglia, il cui utilizzo forse non avrebbe cambiato le sorti della guerra nel Mediterraneo, ma avrebbe sicuramente fatto sentire il suo notevole peso in una serie di difficili situazioni militari, quali losbarco di Anzio. Per questo furono oggetto e vittime della reazione armata germanica; per questo la loro condotta figura a buon diritto fra i primi atti della Resistenza italiana che – come ormai ampiamente appurato da decenni di ricerca storiografica – non può essere ridotta all’azione delle formazioni politiche ma comprende tutto quel reticolo di comportamenti avversi all’occupante e sostegno alla lotta di Liberazione senza il quale mai si sarebbe potuta sostenere la lotta armata sul territorio. Nella confusione dell’8 settembre, resistere ai tedeschi significava anzitutto rifiutare la collaborazione, sottrarre alla cattura uomini ed armi, riprenderle contro di loro o tenersi pronti a farlo: che è precisamente quel che fecero Bergamini e i suoi marinai; e nelle stesse ore i soldati di Porta San Paolo, e pochi giorni più tardi quelli di Ignazio Vian a Boves, i militari di Cefalonia e Leros, quelli della divisione Pinerolo in Grecia e dei reparti da cui prese vita la Divisione italiana partigiana Garibaldi in Jugoslavia. Senza dimenticare coloro che, ritenendo la scelta di resistere quale diretta conseguenza del giuramento prestato, organizzarono, alimentarono e guidarono le formazioni del Corpo Volontari della Libertà, pagando spesso tale scelta con la vita: un elenco sarebbe troppo lungo, ma basti per tutti il nome del colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo, capo del Fronte Militare Clandestino nella Resistenza romana, ucciso alle Fosse Ardeatine.
La matrice chiaramente resistenziale della scelta del Romapone in comprensibile imbarazzo le ricostruzioni storiografiche di parte filo o neofascista (bastano a tale proposito le pagine di Giorgio Pisanò nella Storia della guerra civile in Italia) e di quei sedicenti moderati che strumentalmente identificano la Resistenza nel suo complesso con la sua componente comunista. È bensì fieramente rivendicata dalla Marina Militare, i cui uomini non mancano di farvi menzione nei discorsi e negli scritti. Il che, in tempi nei quali alti ufficiali delle Forze Armate esprimono, difendono e proclamano principi che con la Costituzione e la legalità repubblicana ben poco hanno a che fare, è senz’altro un motivo di soddisfazione e fiducia.
Il Anche per questo bene fa il Presidente della RepubblicaSergio Mattarella ad annunciare la sua presenza nella cerimonia a bordo di una unità militare con la quale verrà reso omaggio il prossimo 9 settembre al sacrificio del Roma nelle acque del golfo dell’Asinara (pochi anni fa è stato localizzato il relitto, a 16 miglia dalla costa sarda e 1000 metri di profondità, prontamente dichiarato sacrario militare e come tale intangibile). Vent’anni fa Carlo Azeglio Ciampi aveva fatto lo stesso, e chi scrive ricorda molto bene il commovente affollarsi dei superstiti e dei reduci – ormai vecchi, con il solino e il basco dell’Associazione Marinai d’Italia – nel grande hangar di nave San Giorgio per stringergli la mano. È assai probabile che la maggior parte oggi non ci sia più. Ma alla memoria loro e dei loro commilitoni ventenni che in quel mare riposano, e della scelta compiuta in quei giorni travagliati, è giusto che in un momento storico nel quale sono massime la mistificazione e la confusione di idee su ciò che è avvenuto, la presenza di chi rappresenta l’unità della Nazione e della Repubblica renda – senza ambiguità – il rilevo e l’onore che merita.