Il grande Eduardo al Palazzo della Cultura

Sabato 2 settembre al Palazzo della Cultura è andata in scena la commedia in tre atti di Eduardo De Filippo:
“Uomo e Galantuomo”
a cura dell’associazione Thaleia, nata un anno fa e caratterizzata dalla passione per il teatro amatoriale unita alla solidarietà sociale.
Da tale fruttuosa sinergia nasce questo spettacolo di beneficenza premiato dall’interesse del folto pubblico catanese che ha risposto con entusiasmo all’iniziativa.
Certamente anche l’autore, il grande Eduardo, ha costituito un grande richiamo insieme al progetto ‘filologico’ di analizzare i suoi primi passi nell’impegno teatrale.
La commedia fu scritta infatti, dall’autore appena ventenne, nel 1922 (dopo “Farmacia di turno” del ‘20) per il fratellastro Vincenzo Scarpetta e messa in scena nel ‘24 con il titolo “Ho fatto il guaio? Riparerò!”.
Venne in seguito inserita dallo stesso De Filippo in “Cantata dei giorni pari” (i giorni fortunati, contrapposti ai dispari, quelli ‘storti’), una raccolta di testi teatrali composti dal 1920 al 1942.
Il 23 febbraio 1933 il lavoro fu rappresentato dal ‘Teatro Umoristico I De Filippo’ con il titolo definitivo di “Uomo e galantuomo”.
Questa la trama.
Ospite del ricco e giovane Don Alberto, una approssimativa compagnia, “L’eclettica”, diretta dal capocomico Gennaro De Sia, si presenta sulla scena impegnata nelle prove di “Malanova”di Libero Bovio, uno spettacolo drammatico sbrindellato e distrutto, anche se con esilaranti trovate, dagli incompetenti attori. Irrompe al centro dell’azione Salvatore, fratello della prima attrice incinta di un figlio di Gennaro, che vuole costringere quest’ultimo, da galantuomo, al matrimonio. Da qui parte la commedia degli equivoci di plautina memoria: Alberto crede che Salvatore, sia il fratello della sua ambigua amante Bice, e gli assicura, da galantuomo, che la sposerà. Gennaro scappando per sottrarsi al matrimonio si ustiona i piedi con l’acqua bollente della pentola per la pasta (“Io tengo ‘na buatta”) e viene curato dal nobile dottor Tolentano. Alberto scopre che Bice è sposata con il medico e, per salvarsi, si finge pazzo (Larallalà). Tolentano lo smentisce e lo costringe a fare una scelta: o il ricovero in manicomio per salvare l’onore di marito tradito o la morte, il ‘delitto d’onore’, per lavare l’onta. Ma, a sua volta lo stesso Tolentano dovrà fingersi pazzo per evitare la vendetta di Bice che ha scoperto una sua relazione segreta. Alberto, finita la messa in scena, torna libero.
Benché al tempo fosse molto giovane Eduardo mostra di vivere pienamente immerso nella realtà culturale partenopea, e non solo, di quegli anni.
In primo luogo la sua appartenenza alla famiglia ‘allargata’ di suo padre, Eduardo Scarpetta, gli assicurava una posizione privilegiata nel mondo dello spettacolo.
Originariamente la commedia voleva essere, infatti, un piccolo dramma borghese riferibile alla scarpettiana maschera di Felice Sciosciammocca, che qui si presenta nella figura di Alberto De Stefano.
Di questo mondo faceva parte anche Libero Bovio (1883-1942), il ‘re di Piedigrotta’, alla cui opera ‘Malanova’ del 1911 si fa riferimento nel testo eduardiano imbastendo la parodia di un teatro strappalacrime e‘serioso’.
È certo un riferimento irriverente vista l’aperta polemica con Scarpetta cui Bovio, fautore di un teatro napoletano originale, rimproverava la scelta di un repertorio filo-francese basato sull’adattamento di pièces e pochades d’Oltralpe e sul vaudeville.
Ma soprattutto non bisogna dimenticare che negli anni Venti del secolo scorso Pirandello emergeva come autore teatrale.
Fin dal 1922 Eduardo de Filippo, dopo aver assistito ai Sei personaggi, al teatro ‘Mercadante’ di Napoli, subì il fascino di Pirandello, anche se i due si incontreranno solo nel 1933 al ‘Sannazaro’ di Napoli.
Rimasero amici e collaborarono fino alla morte del premio Nobel.
Tre anni durante i quali si rappresentarono ‘Liolà’ e il ‘Berretto a sonagli’ in napoletano.
Ma già in questa commedia sono presenti diverse suggestioni pirandelliane: il metateatro, la maschera, l’ironia, il tema della pazzia e della sua finzione per sfuggire al deprezzamento della propria immagine pubblica o ad una realtà altrimenti inaccettabile, come in “Enrico IV” di Luigi Pirandello, peraltro rappresentata nello stesso anno, il 1922.
La “corda pazza” pirandelliana si trasfigura nella “farsa tragica” di Eduardo. E mentre Pirandello si muove tra fratture della realtà e amare contraddizioni, Eduardo indaga i sentimenti e aspira alla solidarietà.
In ‘Uomo e galantuomo’ l’umorismo che Pirandello aveva teorizzato nel 1908 è messo in pratica… con leggerezza.
Si ride, è vero, ma per scoprire che in realtà c’è davvero poco da ridere.
“Il mondo in fondo -dirà l’autore- è un gran palcoscenico e la vita una commedia allegra o triste secondo i casi. Per vivere, gli uomini debbono adattarsi a recitare la commedia e debbono anche fingere di divertirsi…teatro significa vivere sul serio quello che gli altri nella vita recitano male”