Il lento approccio evolutivo “normativo-culturale” in ordine al tema sulla violenza contro le donne

Nonostante la crescente sensibilità della gravità del fenomeno, nonostante la mobilitazione di associazioni femminili, femministe e, di recente, anche maschili per contrastare ogni forma di violenza di genere anche attraverso una condivisa riflessione critica sull’immaginario culturale maschile che supporta e talvolta addirittura giustifica queste violenze, il numero di “femminicidi” in Italia è costante pur in presenza di una complessiva riduzione degli omicidi. Una “cultura della violenza” che sopravvive alle diverse (ed evidentemente ancor deboli) azioni di contrasto e continua ad alimentarsi di luoghi comuni sull’identità maschile, secondo il modello dell’uomo forte e autoritario, destinato “per natura” a possedere e a comandare.
Ferite, percosse che uccidono, ma che – quando non uccidono – lasciano nelle vittime della violenza segni indelebili e più profondi di quelli esteriori. La violenza sulle donne, comunque essa si manifesti, come violenza fisica, sessuale, psicologica o economica, costituisce un crimine che annichilisce, toglie la stima di sé, sottrae ogni certezza, demolisce l’autostima.
Qui entrano in gioco la storia, i miti, alcune radicate tradizioni, o meglio il “peso di certe tradizioni”, che per troppo tempo sono state considerate come un valore positivo, anziché un evidente disvalore. Alla base delle percosse, delle lame e delle pallottole c’è un retaggio antico, che purtroppo perdura anche nell’Italia moderna: la volontà di poter controllare, fin nei minimi dettagli, la vita di un’altra persona. Di punirla per essersi sottratta a tale controllo.
Il nostro ordinamento giuridico è stato, del resto, permeato a lungo di violenza,alimentandosi di disvalori considerati “valori insopprimibili” e di un “immaginario patriarcale” che ha segnato profondamente la storia e il diritto dell’Europa medievale, moderna e contemporanea.
Basti pensare che, dopo l’entrata in vigore della nostra Costituzione e, in particolare dell’art. 29, che proclama la “eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, solo nel 1956 la Corte di Cassazione ha deciso che al marito non spettava nei confronti della moglie e dei figli lo jus corrigendi (art. 571 c.p.), ossia il potere educativo e correttivo del pater familias che comprendeva anche la coazione fisica. Allo stesso modo, infatti, soltanto tra il 1968 e il 1969 la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 559 del codice penale che puniva unicamente l’adulterio della moglie, senza omettere di ricordare che, soltanto nel 1975,il nostro ordinamento giuridico ha sostituito la famiglia strutturata gerarchicamente con un nuovo modello di famiglia paritaria.A riprova di quanto osservato, si inserisce la modificazione legislativa che, introducendo la legge n. 442 del 5 agosto 1981, che ha abrogato la rilevanza penale della causa d’onore, cioè la commissione di un delitto perpetrato per salvaguardare l’onore proprio e della propria famiglia (art. 587 c.p.), non sarebbe stato più sanzionato con pene attenuate rispetto all’analogo delitto di diverso movente, cancellando così il presupposto che l’offesa all’onore arrecata da una condotta “disonorevole” costituisse una provocazione gravissima tanto da giustificare la reazione dell’“offeso”.
In quest’ottica faticosa di riassetto generale del tessuto legislativo in materia, è sempre dopo la legge del 1981 a non trovare più spazio nel nostro ordinamento l’istituto del “matrimonio riparatore”(art. 544 c.p.), che prevedeva l’estinzione del reato di violenza carnale nel caso in cui lo stupratore di una minorenne accondiscendesse a sposarla, salvando l’onore della famiglia.
Ritardi che sono espressione evidente delle resistenze e della difficoltà di estirpare nel nostro Paese le radici delle asimmetrie tra i sessi e, di conseguenza, della violenza di genere. Si parla di interventi di vario tipo, non limitati all’inasprimento delle pene a carico dell’autore della violenza. La repressione è necessaria, ma da sola non basta. Oltretutto, la punizione – indubbiamente indispensabile, anche per l’effetto deterrente che può esercitare quando è dotata di efficacia e di effettività – in ogni caso interviene a seguito del verificarsi della violenza e, quindi, deve essere affiancata da altre misure che abbiano la capacità di prevenire la violenza o comunque di snidarla prima che si manifesti in tutta la sua brutalità.
Ben vengano, pertanto, gli interventi legislativi, da quelli di carattere strettamente penale, intesi soprattutto a rafforzare l’effettività delle sanzioni, a specifiche “leggi anti-violenza”, di cui quasi tutte le regioni italiane si sono dotate. Ben venga la normativa anti-stalking, frutto di una nuova sensibilità del legislatore italiano verso i temi della violenza, e ben vengano i provvedimenti adottati nel 2013, ovvero la ratifica della Convenzione di Istanbul, considerata il trattato internazionale di più ampia portata in materia, e la conversione in legge del decreto n. 93/2013 (L. 15 ottobre 2013, n. 119).
Agli interventi normativi, sia di tipo punitivo che preventivo, devono però essere adottati anche maggiori strumenti di intervento sociale (sportelli di ascolto e di denuncia, presidi anti-violenza nei vari ambiti territoriali, case-rifugio per donne maltrattate, attivazione di linee telefoniche dedicate, assistenza attraverso personale specializzato, ma soprattutto istituzionalizzazione dei Centri anti-violenza esistenti etc.) e poi interventiculturali e formatividiretti sia a “professionalizzare” le forze di polizia e gli operatori sanitari ed educativi, affinché acquisiscano maggiore sensibilità, capacità di lettura e riconoscimento del problema, sia a realizzare in tutte le scuole di ogni ordine e grado progetti per divulgare la cultura di genere, per combattere gli stereotipi, per educare i giovani al concetto di parità e pari opportunità.
Un fenomeno complesso impone un approccio integrato e, pertanto, iniziative singolari pur lodevoli vanno incanalate all’interno di specifici percorsi formativi destinati a sensibilizzare, sin dalla più tenera età, alla cultura del rispetto reciproco e della valorizzazione delle differenze e al contrasto verso qualsiasi forma di discriminazione.
Un sistema così articolato che si declina nel tempo, non può essere realizzato con le poche risorse messe a disposizione «per il contrasto della violenza di genere»: non ci vogliono solo idee chiare e obiettivi condivisi, non bastano gli attuali centri anti-violenza che – pur nella precarietà in cui sono costretti ad operare – offrono eccellenti servizi alla comunità, non è sufficiente la rete di associazioni femminili e maschili mobilitate nel condannare e contrastare la violenza, ma è necessario, anche e soprattutto, poter contare su un ceto politico e amministrativo convinto che l’impegno per prevenire e ridurre il costo umano e sociale della violenza di genere non è una spesa ma è un investimento per il futuro da avviare sin da subito non procrastinabile ulteriormente, ossia una misura che contribuisce anche al sostegno dell’economia del Paese.
Meno donne maltrattate in famiglia significa, infatti, più donne serene e produttive nei luoghi di lavoro e risparmi per servizi giudiziari, cure mediche e servizi sanitari, sociali e legali. Ciò si tradurrebbe in una situazione di vantaggio per la costruzione di un’intera comunità caratterizzata da nuovi principi, in cui, la differenza uomo-donna sia occasione di incontro e non di inciampo.