Intervista all’economista Maurizio Caserta “È possibile ricostruire un umanesimo liberale con al centro l’individuo e le sue molteplici dimensioni”

Maurizio Caserta, catanese, 64 anni, è un brillante studioso e un qualificato professore di Economia dell’Università di Catania. Si è laureato nel 1984 in Economia e da quel momento la progressione professionale e accademica del professore Caserta è stata rilevante e ininterrotta. Ha conseguito nel 1988 il Master in Economics presso la Faculty of Economics and Politics – University of Cambridge (U.K.); dopo il Dottorato di Ricerca in Economia Politica all’ Università di Napoli nel 1991; mentre nel 1994 ha ottenuto il Philosophiae Doctor in Economics presso la Faculty of Economics and Political Science – University College di Londra. E’ divenuto ricercatore Dipartimento di Economia e Metodi Quantitativi, Università di Catania un incarico accademico che ha mantenuto sino all’anno 2000. Quindi è stato nominato professore associato di Economia Politica – Dipartimento di Economia e Metodi Quantitativi, Università di Catania, negli anni 2000-2003. Dal 2004 è diventato ordinario di Economia politica nello stesso dipartimento. Ha ricoperto anche il ruolo dal 2006 al 2009 di Direttore, Centro per la Governance e lo sviluppo territoriale (GOT), Universitá di Catania. La sua sfera di studio ha spaziato con interessi svariati, in particolare con approfondimenti sull’economia Keynesiana, sull’analisi economica del diritto e delle istituzioni e sugli effetti delle dinamiche economiche nello sviluppo locale.
La personalità del professore si è manifestata in una radicata passione per l’attivismo nel sociale e bisogna dire che in questi ultimi vent’anni non si è mai tirato indietro in un ruolo di intellettuale impegnato e sempre in prima linea nella battaglie sociali. Il professore ha ricoperto dal 2010 al 2018 il ruolo di componente del consiglio di amministrazione della Fondazione Sicilia e dal 2011 si è distinto anche come componete del Cdr della Fondazione RES. Fa parte anche dal 2014 del Consiglio di amministrazione della Civita Sicilia e l’anno successivo è stato nominato Vice presidente del Comitato per la gestione del Fondo Speciale per il Volontariato Sicilia.
Maurizio Caserta è autore di diversi saggi sui temi economici contemporanei che sono perfettamente congeniali alla sua formazione culturale e accademica che risulta essere assai ricca e costellata da numerose pubblicazioni di carattere scientifico di notevole valore.
Non nasconde il suo amore per Catania che si è dispiegato nel 2013 quando si è candidato con una lista civica.
A Maurizio Caserta va anche il merito di essere stato fra i promotori e animatori del forum “Catania Può”. All’ultime elezioni amministrative del 28 e 29 maggio 2023 è stato nuovamente candidato alla carica di sindaco di Catania per il centro sinistra con l’appoggio del Partito Democratico, del Movimento 5 Stelle, di Europa Verde e di Sinistra Italiana ottenendo il 24,7% dei consensi perdendo la sfida con Enrico Trantino ed ha fatto ingresso anche nel Consiglio Comunale di Catania.
È stato presidente dell’Associazione, Mediterraneo, Sicilia, Europa.
Insieme ad Aldo Premoli ha scritto un saggio “Mediterraneo Sicilia Europa. Un modello per l’unità Europea. In quest’opera Caserta narra molti aspetti reconditi e evidenti dell’isola messa in termine di paragone con altre regioni del Sud Europa, come Spagna e Grecia, mostrando le affinità sulla vocazione mediterranea e solare, la naturale propensione all’accoglienza e il secolare provvidenzialismo, per ultimo anche la grande volontà di autonomia. I due autori lanciano forse un utopia indicando che dal Sud Europa può nascere un continente diverso e proponendo soluzioni di rilancio fondate sulle specifiche identità locali che possono divenire un modello per un Europa più coesa, unita e forte. Maurizio Caserta è un uomo di lucida intelligenza, dotato di elegante garbo e squisita cortesia, molto sensibile al dialogo e all’approfondimento dei temi sociali. Ha accettato con grande piacere di rispondere ad alcune domande.
Il Welfare State è in crisi da decenni. Si riuscirà a ritornare a quell’inimitabile modello di benessere ?
Uno dei tratti della modernità è l’idea che vi sono dei vantaggi dalla cooperazione. Rinunciare ad una quota di benessere oggi può essere la condizione per accrescere il proprio benessere in futuro. Non sempre questo meccanismo funziona bene, purtroppo. Perdita di fiducia reciproca e crisi economiche possono minare l’accordo per il quale chi produce di più si carica del compito di sostenere chi produce di meno. Queste circostanze possono portare a crisi sociali di notevole portata. Lo scontro politico sul reddito di cittadinanza in atto nel nostro paese è un esempio dei rischi che si corrono. Occorre quindi ripensare il welfare per adattarlo ai tempi. E fondarlo su due principi: a) nessuno può fare tutto da solo; la produttività di ciascuno dipende in buona misura anche dall’azione altrui; b) tutti possono contribuire (escludendo ovviamente i casi di totale inabilità). Su queste basi si può ricostruire un sistema cooperativo, inclusivo e aperto all’innovazione. Ma richiede una guida politica che al momento non è visibile.
L’Europa è il continente dei diritti sociali e civili oggi erosi dalla globalizzazione e dal sovranismo. Cos’è successo in questi anni ?
Il processo di globalizzazione ha mostrato i suoi limiti. Non è riuscito a garantire in maniera equilibrata il benessere a tutti. In questi primi round della competizione globale molti (stati e individui) sono stati perdenti. Non sorprende quindi che una delle reazioni possibili sia stata quella di chiudersi all’interno dei propri confini. Eppure non si può liquidare quel processo come interamente fallimentare. Va ripensato e riformulato. Il principio per il quale ciascuno di noi può comprare o vendere ovunque voglia ha degli evidenti effetti esterni negativi. C’è una domanda di protezione e di sicurezza che non può essere ignorata. Ma c’è anche una domanda di libertà negli stili di vita e nelle identità personali. La sfida per i prossimi anni e per l’Europa in particolare è rendere compatibili diritti sociali ed economici, da una parte, e diritti civili, dall’altra. Ormai questi diritti stanno in piedi insieme o cadono insieme. Lo spazio di libertà è uno solo, con più dimensioni. Non si produce e non si innova se non è possibile vivere secondo il proprio stile e secondo la propria identità.
Il Lib lab è stata la litania del progressismo politico. Si possono conciliare ?
Certamente sì. Come già osservato, lo spazio di libertà è uno solo, con più dimensioni. Le attività umane sono interconnesse: la produzione, il consumo, la formazione, le relazioni sociali, la cultura, la famiglia, i sentimenti, il divertimento. Solo per fare qualche esempio: non si può avere una vita sociale soddisfacente se si è disoccupati; non si lavora bene se non si è sereni in famiglia; non si è sereni se non si ha la famiglia che si desidera. Spesso i difensori della libertà economica limiterebbero volentieri la libertà di amare chi ci piace e di formare una famiglia. Ugualmente i difensori dei diritti civili sono spesso favorevoli a limitare la libertà economica. Ma il desiderio di libertà non può essere limitato ad alcuni segmenti della vita umana; quando c’è, va naturalmente in tutte le direzioni. È possibile quindi ricostruire un umanesimo liberale con al centro l’individuo e le sue molteplici dimensioni. Attorno a questo individuo va costruito uno spazio vitale all’interno del quale la produzione, l’impresa, il consumo, il lavoro, l’arte, la cultura, i sentimenti, il sesso, la fede religiosa possano essere esercitati con piena libertà. Questo spazio va presidiato e sostenuto, con servizi pubblici adeguati: scuola, sanità, giustizia, difesa, sicurezza, ambiente, infrastrutture, innovazione, ricerca. Le parti politiche dovrebbero differenziarsi sull’importanza da dare a ciascuno di questi elementi, non sull’impostazione del problema.
La caduta della domanda interna non è originata dagli stipendi e dai salari troppo bassi?
Non sempre la caduta di una delle componenti della domanda implica la caduta della domanda complessiva, se la caduta di una è compensata dalla crescita di un’altra. Le politiche anticicliche servono proprio a questo. Le politiche di sostegno alla domanda messe in campo con strumenti monetari e fiscali in risposta alla crisi pandemica ne sono un esempio. Non sempre però riescono ad annullare per intero le asprezze del ciclo. È possibile quindi che, in alcune circostanze, accanto a politiche anticicliche si associno politiche redistributive. A volte tuttavia il problema è strutturale. È possibile, infatti, che la lentezza della domanda interna sia dovuta alla componente dei consumi che non cresce come dovrebbe. Non vi è dubbio, infatti, che i salari e gli stipendi in Italia crescono meno degli altri paesi, con una base di partenza che è pure relativamente più bassa degli altri paesi europei. La discussione pubblica sul salario minimo ha reso evidente questa differenza. Non credo che questa in corso sia la stagione politica che può portare ad un riequilibrio redistributivo. Un riequilibrio che a mio avviso è assolutamente necessario.
Il debito pubblico è un enorme macigno sul futuro della spesa pubblica. Come ne usciamo ?
Il debito non è necessariamente un fardello insopportabile. Dipende. Dipende da alcune caratteristiche del sistema economico. Lo stesso debito può essere insostenibile per un’economia piccola ma assolutamente sopportabile per un’economia grande. Ma le dimensioni assolute del debito non sono del tutto irrilevanti. Se sui mercati circolano grandi quantitativi di debito di un paese, le vicende di quel paese saranno rilevanti anche per altre econome. Sarà quindi interesse degli altri tenere sotto controllo il debito del paese fortemente indebitato anche in termini assoluti. Il nostro paese ha una grande quantità di debito e non sembra neanche essere nelle condizioni di farvi fronte. Questa è una delle preoccupazioni maggiori dei principali partner del nostro paese. Non sorprende quindi che nelle partnership internazionali si richieda al nostro paese di rientrare al più presto verso dimensioni relative e assolute meno cospicue. C’è sempre una soglia di guardia oltre la quale scatta l’allarme, poiché le conseguenze non saranno limitate al paese indebitato, ma si propagheranno verso paesi vicini economicamente. Il controllo della spesa e la crescita economica sono da sempre le due politiche che possono ridurre le dimensioni del debito. Le due politiche possono diventare insostenibili se non si è disposti a sacrificare la spesa corrente a vantaggio della spesa in investimenti. Ciò purtroppo richiede una congiuntura politica che permetta di sacrificare alcune esigenze di breve termine a favore di quelle di lungo termine. Molto difficile da realizzare.
Il mezzogiorno è scomparso dalle agende dei governi, l’assistenzialismo e i bonus sembrano l’unica ricetta per alleviare le ferite sociali del Sud.
Il mezzogiorno è scomparso dalla discussione politica ma non è scomparso il divario Nord-Sud, che forse cresce. Sembra di essere fermi ancora all’accusa di inefficienza da parte degli osservatori del Nord, e all’accusa di aver depredato il Sud da parte degli osservatori del Sud. Se l’approccio è questo, non ne usciremo mai. Occorre cambiare l’impostazione del problema facendo cessare la retorica rivendicazionista che ha caratterizzato una buona parte del confronto sul Meridione. Il Sud continentale, e la Sicilia in particolare, sono dotati di asset assai importanti. Occorre partire da lì e chiedersi perché non sono stati messi a reddito. Gli analisti hanno puntato il dito contro un accordo tra élite nazionali e locali. Ai primi è stato garantito appoggio politico, ai secondi protezione delle loro rendite di posizione. L’impressione che si ricava, quando si ascolta chi rivendica compensazioni per torti subiti dal Sud, è che lo scopo sia solo conservare o rafforzare le rendite. Che è una strada senza uscita, come la storia ha mostrato.
Autonomia differenziata e insularità sembrano due facce della stessa medaglia. Sono strumenti per fare decollare le Regioni ?
Il tema trattato da questa domanda è quello del rapporto tra istituzioni e geografia. Può una particolare caratteristica geografica essere aggravata o mitigata da un particolare assetto di leggi e istituzioni? È la nota questione dell’insularità e della richiesta di tenerne conto nelle politiche di crescita e sviluppo. Un tempo – in verità – l’insularità era ritenuta un vantaggio, poiché proteggeva meglio dalle invasioni. Oggi si richiede una sorta di compensazione per la ‘sfortuna’ di essere un’isola. Non è un caso che la questione dell’insularità sia stata sollevata dalla classe politica, che invece non si è mai preoccupata di trarre vantaggio dalla posizione geografica. Insomma, quest’ossessione per l’insularità, da compensare con opportuni trasferimenti, quasi un’insoddisfazione con la propria identità di isola (una sorta di pulsione transgender), nasconde il tentativo di mantenere le cose immutate, rivendicando risorse provenienti dal resto del paese per compensare qualcosa di cui i siciliani non avrebbero responsabilità. Sarebbe utile ricordare anche ciò di cui i siciliani hanno responsabilità, per vedere se alla fine, fatti i conti, le responsabilità interne della relativa arretratezza della società e dell’economia siciliana non siano maggiori di tutte le altre. Per esempio, basta ricordare la responsabilità di non aver sfruttato tutte le opportunità offerte alla Sicilia dalla sua autonomia speciale. Sembra che si sia scoperto adesso che ci sono trasferimenti di risorse ingenti dal Nord al Sud. Perché si dovrebbe negare alle altre regioni ciò che alla Sicilia è già permesso in modo assai ampio? In verità la questione cruciale è quella dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP), la cui omogeneità nel paese non è stata mai garantita. Forse i siciliani vogliono rinunciare alla loro autonomia speciale? È cosi che recuperiamo i LEP? Ovviamente no. Il punto è chiaramente un altro. Che paese vuole essere il nostro? Un paese in cui tutti – così come prescrive la Costituzione (Art. 3) – abbiano la possibilità di raggiungere un pieno sviluppo e una effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del paese, oppure un paese che concentra le sue risorse nell’area più produttiva relegando il resto al semplice ruolo di consumatori?

Il professore Maurizio Caserta
L’ascarismo delle classi dirigenti sembra un male atavico della Sicilia . Ci potrà essere mai una svolta ?
Sì, è proprio così. L’abbiamo già detto. Continua ad esserci un accordo tra élite locali ed élite nazionali che certamente non favorisce la società e l’economia dell’isola. La conseguenza principale di quell’accordo è la scarsa attrattività che l’isola offre a imprese e lavoratori. Né le imprese né i lavoratori ritengono che qui in Sicilia il loro impegno e il loro lavoro siano adeguatamente remunerati. Nessuna sorpresa se osserviamo spesso un flusso in uscita di imprese e di lavoratori, non compensato da un flusso in entrata. È da lì che bisogna muoversi, riconoscendo che fare impresa in Sicilia è costoso e trovare un lavoro all’altezza delle attese di ognuno è difficile. Occorre quindi chiedersi perché c’è una perversa struttura degli incentivi che fa perdere alla Sicilia risorse importanti. Forse le vicende drammatiche del mese di luglio in Sicilia, dal disastro (forse annunciato?) dell’aeroporto catanese agli effetti del clima estremo con sospensione delle forniture di elettricità e di acqua, ci aiutano a capire qualcosa. È emersa, in tutta la sua drammaticità, la carenza infrastrutturale dell’isola. Si è sempre preferito destinare risorse al consumo e alle spese correnti invece di rafforzare il capitale dell’isola. Quest’isola ha scelto di avere aeroporti inadeguati, sistemi stradali fragili, sistemi di gestione delle acque inefficienti, strutture educative insufficienti. È da lì che bisogna partire. Queste mancanze impongono costi alle imprese e ai lavoratori. La scelta è, spesso, quella di andare a cercare altrove condizioni accettabili.
Il grande interrogativo sono oggi l’utilizzo dei fondi del PNRR e la Sicilia sembra in grave ritardo sulla progettualità.
Quando non si vuole progettare il futuro, non sorprende che non si riesca a progettare. Non si vede perché bisogna destinare risorse a diventare bravi nella progettazione. Si diventa bravi in altro, a estrarre vantaggi da ciò che c’è al momento, piuttosto che costruire le condizioni perché ci siano più risorse in futuro. La partita dei fondi del PNRR ci ha quindi, non sorprendentemente, trovato impreparati. Eppure è la grande ‘occasione del secolo’. Ma è una partita che non si può perdere. In gioco c’è il definitivo scivolamento verso la assoluta marginalità.
Lo Statuto Speciale sembra ormai un armamentario del passato. In che parti può ancora essere applicabile ?
Lo ‘Statuto Speciale’ ha dato alla regione poteri amplissimi. Poteri male utilizzati certamente, se a distanza di 75 anni il divario con le altre regioni italiane continua ad esserci e ad essere consistente. L’autonomia è un valore ricercato da tutti. Ma l’autonomia ha un costo. Chi vuole governarsi da solo non può chiedere agli altri di sostenere le sue scelte. L’autonomia implica responsabilità, ossia essere capaci di sostenere e dar conto di ciò chi si fa, per averlo scelto appunto in autonomia. Forse è proprio questo ciò che è mancato, ossia la capacità e la maturità per scegliere e dar senso alla scelta. A volte, più che dare un premio per ciò che si è fatto, bisognerebbe punire per ciò che non si è fatto. Il consistente flusso di risorse che dal Nord (italiano ed europeo) è arrivato in Sicilia, se da un lato ha garantito standard di sopravvivenza, non ha certo stimolato l’intraprendenza e la produttività siciliane. Per concludere, lo Statuto Speciale è uno statuto di vera autonomia, ha restituito alla Regione le risorse che insistono sul suo territorio (art. 32 e seguenti), ha pure previsto un contributo di solidarietà per compensare le differenze di reddito, ma si è dimenticato di fissare un chiaro sistema di condizionalità cui subordinare l’attribuzione di quelle risorse.
L’Europa da matrigna è divenuta istituzione necessaria e provvidenziale che stempera definitivamente le negative tendenze al nazionalismo sovranista.
Non so se quest’affermazione è condivisa da tutti. Secondo me non esiste un’alternativa ad una Europa forte e credibile. I tentativi di ridimensionare le sue prerogative, alla fine, faranno male anche a chi lo propone. Non vi è dubbio, infatti, che gli equilibri geopolitici stiano cambiando. I fronti Est e Sud stanno assumendo una rilevanza impensabile fino a qualche tempo fa. Si tratta di fronti continentali in cui operano colossi come la Cina, la Russia, l’India, la Turchia. Poi c’è il fronte africano; se i paesi africani operassero in accordo, sarebbero un altro attore continentale di grandissimo rilievo. Di fronte a queste potenze continentali, non esistono alternative al sostegno e rafforzamento della potenza continentale europea. C’è da rafforzare la sovranità europea, che è la somma, più qualcos’altro, delle storie e delle sovranità nazionali. Un’Italia sovrana non è un’Italia che alza i confini o che pretende di operare da sola, è un’Italia che è talmente credibile da esercitare una leadership in Europa, sviluppando idee e politiche che rafforzino l’Unione e i suoi singoli membri.
Cosa manca a Catania per essere governata bene ?
Manca un’idea di città cui far seguire atti, politiche e comportamenti coerenti con quell’idea. Manca una società civile capace di orientare la società politica. Spero che la sciocchezza, che ancora qualcuno si preoccupa di far circolare, ossia di Catania come la Milano del Sud, cessi a favore di un’idea coerente con l’identità della città, che a differenza di Milano ha una spiaggia lunga chilometri, un vulcano unico in Europa, una piana fertilissima, un barocco fortemente caratterizzato, una università molto più antica, e soprattutto un affaccio sul Mediterraneo. Si parta da lì per progettare la città dei prossimi decenni. Si organizzi un Festival delle Città del Mediterraneo, si confrontino le esperienze, si prospettino soluzioni, si competa per la leadership di queste città. Volga Catania lo sguardo a sud. Troverà molti più fratelli e sorelle di quanti possa trovarne a Nord.