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“Addio Anatolia” il romanzo di Didò Sotiriu

Non ha ricevuto molta attenzione, in un’Italia concentrata sulle proprie vicende interne, il centenario della “Catastrofe dell’Asia minore” caduto nello scorso settembre; non sarebbe male fosse avvenuto il contrario, poiché la riflessione sul nazionalismo e i suoi effetti perversi è più che mai di attualità nell’Europa di oggi.

I fatti partono da quella che anche a scuola si studia come “Questione d’Oriente”, ovvero il  disfacimento dell’Impero Ottomano, formazione statale multietnica fondata sul sostanziale equilibrio tra i popoli soggetti, che nel primo Ottocento viene messa in crisi dall’insorgere dello spirito nazionale, degenerato a fine secolo nei nazionalismi espansionisti, bellicisti, intolleranti. Dopo che la sua lotta di indipendenza è stata modello per tutti i movimenti nazionali, in Grecia si fa strada la Megali Idea, ovvero il progetto di un nazionalismo panellenico volto a riunire in un solo Stato tutti i territori abitati da greci, in una sorta di reincarnazione dell’Impero bizantino.

Di fronte alla crisi dell’Impero ottomano, accentuata dalle guerre balcaniche, l’etnia più forte reagisce d’altra parte sostenendo un nazionalismo panturco: è la rivolta dei Giovani turchi del 1908. La prima guerra mondiale, nella quale la Sublime Porta entra al fianco di una Germania considerata modello di organizzazione militare e statale, fornisce l’occasione per colpire le minoranze, anzitutto quella armena vittima del Metz Yeghern, primo genocidio del Novecento.

Dopo incertezze e gravi dissidi interni, la Grecia entra in guerra nel 1917 con l’Intesa, sotto la leadership di Elftherios Venizelos, esponente liberale e deciso fautore della Megali Idea, che sembra trovarenel 1918 l’occasione storica per essere realizzata: il trattato di Sèvres nel 1920 attribuisce ad Atene ampi territori in Asia Minore, nell’ambito dell’auspicato smembramento dell’Impero ottomano. La reazione turca è tuttavia immediata: il sultano viene deposto e sotto la guida di Mustafà Kemal inizia una resistenza costellata di eccidi e violenze da entrambe le parti.

L’esercito greco avanza fino ai dintorni di Ankara, ma la disorganizzazione e la debolezza dell’apparato economico e statale lo portano al collasso. La ritirata si trasforma in una tragica rotta, nella quale sono trascinati i greci di Anatolia. L’esercito kemalista entra infine, il 9 settembre 1922, a Smirne mettendola a ferro e fuoco,mentre decine di migliaia di profughi cercano invano scampo sul mare. Il trattato di Sèvres viene rinegoziato e quello firmato a Losanna nel 1923, nell’impossibilità di garantire diritti e incolumità delle minoranze, risolve drasticamente il problema imponendone il trasferimento nello Stato di riferimento.

Mezzo milione di turchi lascia la Grecia; ma i greci costretti a spostarsi sono un milione e duecentomila, su una popolazione di sei milioni di abitanti. Ammassati per lo più in baraccopoli ai margini delle periferie rubane – le Nea Ionia e Nea Smirni delle città greche di oggi – trascinano la vita nella miseria, la delinquenza e soprattutto la nostalgia per la terra d’origine, nella quale i coloni ellenici  vivevano già  diversi secoli prima di Talete di Mileto.

Nasce da questa dolorosa esperienza un folklore urbano, il rebetiko, che rappresenta la fusione tra la cultura greca della penisola e quella degli immigrati dall’Anatolia; da essa nasce in sostanza l’identità della Grecia moderna e le sue ricche manifestazioni culturali – musicali, letterarie, teatrali, cinematografiche – nelle quali ha largo spazio la memoria di quella che i greci chiamano la Mikrasiatikì Katastrofì, la “Catastrofe dell’Asia Minore”, o Katastrofì per antonomasia: un termine che non può non richiamare immediatamente quello ebraico di Shoah.

Il centenario, che ha dato luogo in Grecia ad un’ampia serie di manifestazioni commemorative, è stato in Italia se non altro l’occasione per pubblicare alcune delle opere letterarie più significative dedicate alla vicenda. È il caso di Addio Anatolia romanzo della scrittrice e giornalista Didò Sotiriou, profuga dall’Asia minore a undici anni, dato alle stampe nel 1962 con il titolo Matomena chomata, ovvero Terre insanguinate, e nuovamente edito in traduzione italiana da Crocetti, editore benemerito nella diffusione della cultura neogreca in Italia.

Attraverso le vicende del protagonista Manolis Axiotis, cresciuto in una famiglia di piccoli agricoltori cristiani del retroterra smirniota, vengono ripercorse le fasi che portano alla Katastrofì: la vita pacifica delle comunità greca e turca, che vivono in villaggi distinti ma si stimano reciprocamente e condividono lavoro, feste e rispettivi cicli dell’anno; il progressivo insinuarsi di diffidenza e odio, indotti secondo l’autrice dalla “propaganda di agenti stranieri” francesi, italiani e soprattutto tedeschi; l’ulteriore opera di divisione svolta dai Giovani Turchi al potere, che dal 1914 destinano i richiamati di lingua greca ai famigerati Amele Taburu, “battaglioni di lavoro”, antesignani di quegli strumenti di sterminio attraverso il lavoro forzato e le condizioni di vita insostenibili che saranno i Kommando dei KZ nazisti.

Lo sbarco dell’esercito greco nel 1919 è una liberazione per le popolazioni finora sottoposte alle violenze turche, ma genera nuovi e grevi  motivi di risentimento e vendetta. Lo stesso Manolis, che vive da soldato richiamato la disastrosa ritirata, non riesce a sottrarsi alla generale ondata di odio etnico. Il romanzo si chiude con la fuga del protagonista verso la Grecia, dopo la caduta di Smirne:, pagine mirabili che rievocano con allucinato realismo il quadro di feroce violenza in cui la città sprofonda.

Dell’utilità di riflettere ancora oggi su queste lontane vicende, dà la misura una notizia fra le tante relative al centenario: che è stato ricordato anche in una Turchia notoriamente tetragona ad ogni ammissione autocritica su questo e altri massacri ed ufficialmente attestata su posizioni di accanito negazionismo. Settembre 2022 ha visto anche a Izmir (il nome turco di Smirne) un fiorire di manifestazioni: l’itinerario della vittoriosa marcia di 400 chilometri dell’esercito turco fino alle sponde dell’Egeo è stato ripercorso da staffette di volontari; il sindaco ha ricordato i cento anni dalla liberazione della città, che ha aperto per i turchi “un secolo di pace”. Tale era peraltro l’interpretazione dei fatti diffusa già ai tempi di Kemal – Atatürk, “padre dei turchi” – comandante vittorioso della guerra di indipendenza, fondatore della repubblica e della Turchia moderna, occidentalizzata e laica. Sul prezzo pagato dagli “altri”, ovviamente, non una parola.

Perché dei nazionalismi – di allora e di oggi – questa è una caratteristica comune e fondante: gli altri o sono entità negative da discriminare (“prima i …”), combattere e sottomettere, meglio ancora cancellare; o semplicemente non esistono. È la stessa logica, non a caso, che portava un Mussolini non ancora duce a proclamare – a Pola nel 1920 – che “di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone”. Si è visto come è andata a finire.

Il contesto è cambiato, ma non troppo. I contrasti etnici sono più che mai all’ordine del giorno; i Balcani e l’Europa orientale sono di nuovo una polveriera, solo assai parzialmente sopita, che continua ad insegnare – al costo di decine di migliaia di morti – la demoniaca capacità dei nazionalismi di risorgere dalle proprie ceneri. Una delle caratteristiche comuni a tutti è la pretesa di tracciare una linea sul terreno (il più in là possibile) e far dipendere dalla posizione rispetto ad essa il diritto all’uguaglianza ed alla stessa esistenza. Cosa non si sa se più assurda o ridicola, in regioni caratterizzate dalla presenza di etnie da sempre frammischiate: i villaggi greci e turchi di Addio Anatolia; i paeselli della Bosnia-Erzegovina o quelli del Kurdistan; l’Istria e la Dalmazia fra il 1918 e il 1945. Il risultato non può essere che il dirompere dell’odio, con le logiche conseguenze.

Né si può dire che la soluzione adottata a Losanna – lo scambio delle minoranze – abbia sortito risultati migliori: le vicende dei profughi greci dell’Asia minore stanno lì a dimostrarlo. E sono ancora numericamente poca cosa rispetto ai 12 milioni di tedeschi espulsi dalle loro terre d’origine dopo la seconda guerra mondiale, per non parlare dei 110 milioni di persone in cui l’UNHCR quantifica la massa dei profughi al giorno d’oggi, quasi due volte l’intera popolazione italiana.

Sono storie da diffondere e far conoscere il più possibile: perché costituiscono il manuale pratico di come NON si deve affrontare oggi l’enorme problema dell’integrazione fra gruppi umani di differente provenienza e di come NON si può  impostare il problema della nazionalità, alla stregua di una clava da avventare di volta in volta sul capo del perdente.

Si potrà obiettare che lo scambio delle minoranze dopo il 1918 e il 1945 ha risolto una volta per tutte i problemi di convivenza. Certo; ma il metodo è lo stesso di cui i Britanni accusavano i Romani: fare il deserto e chiamarlo pace. Gli esuli giuliani in Italia ne sanno qualcosa. Non sono proprio questi l’Europa e il mondo da costruire dopo i lutti del Novecento: ed in questo senso, le pagine dolenti della Sotiriou sui massacri di Smirne e il dolore dell’esclusione è bene averle sempre presente.

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Aldo Borghesi (Livorno, 1957) si è laureato in Lettere a Cagliari, con una tesi in Storia contemporanea. È stato insegnante di Materie Letterarie nelle scuole medie superiori di Sassari e di Storia contemporanea nella locale Università. Ha lavorato negli Istituti Storici della Resistenza della Sardegna. Si è occupato di storia dei partiti politici e della presenza di sardi nella lotta antifascista, nella Resistenza e nella deportazione in KZ.

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