La complicata sintesi della pena tra prevenzione e repressione, rieducazione e punizione

I fatti di cronaca accaduti negli ultimi giorni, sollecitano alcune riflessioni con riferimento al principio di cui all’art. 27 della Costituzione: la funzione di rieducazione, correlata alla pena da comminare, nei confronti di colui che, in ordine al reato contestato, sia stato ritenuto quindi responsabile. Si tratta di una questione dai caratteri particolarmente delicati, poiché, come sovente accade, in essa rinviene la compresenza di molteplici interessi di rilevanza costituzionale, per i quali, risulta indispensabile, procedere ad una mediazione. In tal senso, ci si riferisce al bisogno di trovare ragioni di sintesi tra la certezza della pena, la rieducazione del reo e il rispetto della dignità e del pudore di colui che rimane assoggettato a forme di restrizione della libertà personale.
Emerge ancora una volta, anche a riguardo dell’art. 27 Cost., la natura “compromissoria” della Carta che, riassumendo le istanze derivanti dalle diverse forze politiche presenti in seno allo svolgimento dei lavori dell’Assemblea costituente, ha condotto favorevolmente verso la creazione di norme concordi nel ricercare un patto democratico e la tutela dei diritti umani.
In considerazione di quanto sostenuto, segnatamente alla funzione cui la pena è destinata ad esplicare nei riguardi dell’autore di un reato, sono state elaborate negli anni alcune teorie funzionali a precisare, più da vicino, quale sia la possibile traduzione sul piano eminentemente pratico da assegnare alla pena, sulla scia del principio che di essa si esprime in Costituzione.
Da una parte si configura la funzione general-preventiva, che, manifesta l’efficacia deterrente finalizzata a dissuadere dal porre in essere comportamenti delittuosi (la pena come intimidazione tesa a scoraggiare fattispecie che integrino reati); dall’altra invece, la funzione retributiva con la quale punire il colpevole per il male procurato dalla sua azione illecita. Le due principali teorie concepite in dottrina, spiegano, in modo chiaro, quale sia la duplice funzione che riveste la pena e, pertanto, le criticità si realizzano sul binario dell’applicazione pratica di essa, suscitando una larga percezione di insicurezza e di instabilità soprattutto nei confronti delle vittime e, più in generale, per la totalità dei cittadini perbene.
Ciò che si afferma non può dunque mettere in dubbio i capisaldi rappresentati dai principi costituzionali in materia, tuttavia vuole piuttosto sottolineare come a causa del dilagare degli efferati delitti che continuano a consumarsi nell’odierna società, accanto ad una questione culturale che precede ogni aspetto e per la quale bisogna lavorare sin da subito e nel tempo, serve rapidamente intervenire trovando soluzioni pragmatiche che garantiscano l’interesse protetto limitando le barbarie in atto, non solo in astratto ma ancor di più in concreto.
In questa cornice che mette in seria crisi, attualmente, il funzionamento di dette teorie, non per ciò che rappresentano dal punto di vista sostanziale, ma per gli scarsi rilievi pratici in termini di effettività della tutela, è lo Stato a dover garantire celeri sussulti di credibilità a partire dalla certezza della pena – oltre ad inasprire le pene quando serve e procedere alla corretta qualificazione dei reati contestati alla luce della riprovevolezza giuridico-sociale di essi – quale espressione della funzione punitivo-afflittiva e, quindi, sostenere con più forza il rinvigorimento della funzione general-preventiva, da ultimo così scarsamente percepita e gravemente disattesa.