La legittimità del salario minimo con i precetti costituzionali

Il fenomeno oramai insito nelle economie moderne, espresso dall’ossimoro del “lavoro povero”, sollecita positivamente la riproposizione della questione salariale alla luce di quanto sancito dall’art. 36 della Costituzione. La disposizione costituzionale or ora richiamata, ricompresa nel titolo dedicato ai rapporti economici, afferma la situazione di favore in capo al lavoratore a poter percepire una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, sicché da garantire al lavoratore e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Approfondendo il contenuto della norma suindicata, essa, esprime dunque la funzione di norma programmatica deputata a rivelare la sussistenza di un principio cardine in via generale, seppur non ci possa spingere a tal punto da sostenere una concorde volontà dei Padri verso la scelta protesa a favore del concepimento di un salario minimo, che, in tal senso, si inserisce nell’ambito della discrezionalità del legislatore in aderenza al tipo di indirizzo che si intende adottare in materia.
In sede di Assemblea costituente vi fu il tentativo di far approvare un emendamento – su iniziativa del deputato Aladino Bibolotti – finalizzato ad inserire nella Carta, la previsione secondo la quale, “il salario minimo individuale e familiare e la durata della giornata lavorativa sono stabiliti dalla legge“, ma l’intervento di modificazione non trovò accoglimento e, pertanto, si procedette all’esclusione della riserva di legge sul salario minimo; non di meno, va segnalato però, come ciò non significa che una simile misura non possa essere introdotta, allorquando ritenuta idonea per le stesse finalità stabilite dalla norma di cui in parola.

Non sussiste alcun dubbio in ordine al contenuto del disegno di legge costituzionale, il quale, infatti, assegnava competenza in materia salariale alla contrattazione collettiva, allo scopo di definire la modalità con cui fissare una retribuzione proporzionata in virtù del ruolo affidato al contratto collettivo con efficacia erga omnes.
Oggi, pertanto, l’art. 36 costituisce valore di norma precettiva, tale da riconoscere al lavoratore un diritto soggettivo alla giusta retribuzione benché continui a non esservi un salario minimo, del quale si discute a riguardo di un’eventuale introduzione comunque compatibile con il dettato costituzionale, ove si disponesse in tale direzione.
Fino a quando non vi sarà un salario minimo, che, tuttavia, potrebbe risultare vantaggioso per bilanciare gli scenari macroeconomici tesi a sostenere un prepotente allargamento delle disparità reddituali esistenti, con relativo e costante livellamento verso il basso del tradizionale ceto medio ripiegato in prossimità della soglia di povertà, sono quindi le tariffe salariali ricomprese nei contratti collettivi nazionali, nei diversi settori di produzione, a rappresentare il parametro fondamentale per definire la misura della retribuzione in una prospettiva di proporzionalità secondo l’art. 36.
Tuttavia, la crisi economica che morde con modalità strutturali, unitamente alla deregolazione normativa e agli effetti distorti delle dinamiche contrattuali, sembra accompagnare verso il superamento di un certo paradigma tradizionale storicamente fondato sulla lunga fase di autonomia dell’ordinamento sindacale e, contestualmente, sollecitando anche una possibile variazione del ruolo eseguito dalla contrattazione quale autorità salariale per eccellenza.