“Il turno” di Luigi Pirandello

Perché leggere Il Turno di Luigi Pirandello? Perché un lettore contemporaneo dovrebbe accostarsi ad una storia che porta tutti i limiti legati ad un’ambientazione, ad una condizione morale e sociale ormai desuete? Che cosa può ricavarne un lettore moderno da una trama piena di matrimoni combinati, di domini patriarcali e di veglie funebri?
Questa è una storia ambientata nella Sicilia del tardo Ottocento. Don Marcantonio Ravì, un padre squattrinato ma pieno di ingegno, progetta di far sposare la figlia Stellina con don Diego Alcozèr, un anziano e ricco signore presumibilmente prossimo alla morte. Per riuscire nel suo progetto, che farebbe a suo modo di vedere il bene di Stellina (ma soprattutto il suo), don Marcantonio è disposto a rinchiudere la figlia in camera notte e giorno. Nel frattempo, ha individuato il giovane che dovrebbe subentrare al vecchio nobile dopo la di lui dipartita. Il suo nome è Pepè Alletto, un ragazzo sensibile, sfiorato dall’arte, figlio di un padre dilapidatore di patrimoni e di una madre, donna Bettina, tanto religiosa quanto schiava delle apparenze. Marcantonio, Stellina e Pepè si ritroveranno a vegliare il vecchio per una polmonite probabilmente mortale e quando pare che il progetto di Marcantonio stia per compiersi e che arrivi il turno di Pepè, don Diego si rimette come per miracolo; così come si ritroveranno nell’ultima pagina del romanzo, a distanza di un anno, a vegliare il corpo di Ciro, cognato di Pepè e personaggio di primo piano, nell’attesa di un “turno” diversamente vissuto.
Seppur a distanza di anni dalla sua pubblicazione (1902), l’opera pirandelliana mantiene un senso del ritmo – precipitoso, incalzante – proprio del racconto che ci trascina in un vortice da cui si esce soltanto quando ci si è liberati del libro. Entrando dentro Il Turno, il lettore potrà avvertire un ricco intreccio intertestuale; potrà cogliere l’interscambio di questo Pirandello con tutta la tradizione verista siciliana; o ancora con Leopardi quando si narra della vocazione estetica di Pepè; con i Promessi Sposi di Alessandro Manzoni per costruire la sua storia o con la Kyropaideia di Senofonte per capire la figura di Ciro Coppa; con Pascal, fonte celata del titolo stesso, per il riferimento al turno della morte che si sovrappone al turno delle nozze.

Eppure, non risiede soltanto nell’intertestualità il motivo ultimo dell’interesse del Turno per un lettore contemporaneo. Sotto il velo arcaico della trama, si nasconde nel romanzo di Pirandello qualcosa che va oltre e che può ancora oggi interpellarci. Basta osservarne i temi esistenziali per capirlo. Il primo è sicuramente il rapporto tra genitori e figli. Marcantonio vuole costringere Stellina a sposare un uomo molto più anziano di lei, provocando così una serie di disastri che avranno ripercussioni all’interno della storia. Il punto è quello della proiezione dei desideri genitoriali sui figli e dell’uso dei figli quali strumento di riscatto e realizzazione.
L’altro nucleo esistenziale del Turno ci dice qualcosa di più profondo. A rivelarlo è Ciro quando dice: “Io ho bisogno di una donna”, difendendo, davanti al cognato Pepè, la sua necessità dopo la morte della moglie Filomena. Il bisogno, però, fa dell’altro una “cosa” che non si è intenzionati a perdere, per il quale si è disposti alla violenza sotto la minaccia della perdita. Tante storie drammatiche e rapporti di coppia del nostro tempo trovano la loro radice ultima nella verità di Ciro.
“Non posso vivere senza di te” non è una dichiarazione d’amore. L’appartenenza reciproca non può essere confusa con la proprietà. Forse la modernità di questo romanzo sta tutta qui: nel misconoscimento del corpo. Di un corpo visto come possesso e unicamente come realtà visibile.
Se Il Turno si dimostra essere ancora oggi così attuale, non tanto per l’ambientazione ma quanto per i temi esistenziali trattati, mi rendo conto che c’è ancora molto da fare in merito; perché ieri come oggi l’atto più complesso, ci dice Pirandello, è in fondo quello più semplice: accettare la fragilità del nostro esserci, rinunciando alla costruzione di una statua di noi stessi. È proprio questo progetto di modernità a determinare il fallimento della modernità stessa.