“Verde acqua” di Marisa Madieri

Quale fu l’esodo che i fiumani condivisero con gli altri italiani d’Istria e della Dalmazia? E’ la storia narrata in Verde acqua da Marisa Madieri, andata via a undici anni dalla città quarnerina a seguito dell’opzione filoitaliana della sua famiglia. E’ un racconto lungo sotto forma di diario, tenuto dal 24 novembre del 1981 al 27 dello stesso mese del 1984, dove passato e presente s’intrecciano, ai ricordi s’inframezzano riflessioni e notazioni di vita quotidiana, spesso queste nascono da quelli e viceversa, senza tuttavia che si perda, nell’andirivieni della scrittura, il filo narrativo che li tiene insieme. Se proviamo a riavvolgere questo filo dall’inizio veniamo subito introdotti nell’atmosfera multietnica che caratterizzava la città tra fine ottocento e primi del novecento, come risulta dal vasto e complicato sistema di parentele della scrittrice, dove ampio risalto assumono le figure dominanti delle nonne:
“ L’atrio a casa della nonna paterna, a Fiume, era spazioso e pieno di luce…ritornavo regolarmente da quella strana ed enigmatica nonna che mi amava moltissimo…Il suo passato era avvolto nel mistero. Anche mio padre ne parlava poco e malvolentieri. Con certezza so soltanto, per averlo letto nel suo certificato di morte che era nata a Varazdin[a nord di Zagabria, al confine con l’Ungheria] nel 1868, si chiamava Filippina Miletic e aveva sposato Giorgio Madjaric, il cui cognome subì nel tempo due aggiornamenti, prima in Madierich e poi in Madieri.”

“ Anka Grkovic, vedova Puhalj, vedova Belic, vedova Gregorutti e di fatto anche vedova Madieri, è stata cooptata nella nostra famiglia e promossa nonna dopo essere diventata a settant’anni passati l’ultima compagna di mio padre, vedovo anche lui da un paio d’anni…E’ nata a Bela Crkva, vicino a Belgrado sul confine con la Romania, da madre rumena e padre serbo…Dalla Vojvodina alla Dalmazia, dalla Dalmazia a Udine, da Udine a Trieste, il suo itinerario matrimoniale si è fermato per ora in via Piccardi. Ma oserei dire che questa sarà l’ultima tappa…Se la assecondo, inizia lunghissimi racconti di avvenimenti storici legati alle sue terre, il Banato, la Slavonia, la Serbia, l’Ungheria, la Romania, da cui trapelano orgogli razziali e di classe, pregiudizi antisemiti, viscerali odi antititini, nostalgie monarchiche.”
“ Vicino a piazza Dante, nel centro di Fiume, abitava la nonna Quarantotto…La nonna Maria, che io chiamavo curiosamente col cognome come facevo con la nonna Filippina, era nata a San Colombano, vicino a Muggia, da una famiglia di contadini, e della campagna aveva conservato la durezza e la spietatezza.”
E’ l’album di famiglia che occupa le prime pagine del racconto, che ci rimandano a quella cultura mitteleuropea, di una mitteleuropa del sud, in cui mosse i primi passi la Madieri. Basti pensare che la nonna paterna conosceva quattro lingue, il serbo-croato, l’ungherese, il tedesco e l’italiano. Un mondo spazzato via da due guerre mondiali, la seconda soprattutto, che stravolse radicalmente il pur precario assetto di una regione, quella alto-adriatica, in cui convivevano genti di diversa cultura, lingua, nazionalità. Come per Pola anche per Fiume l’ora decisiva è segnata dal Trattato di Parigi del febbraio 1947:
“ Tra il 1947 e il 1948 a tutti gli italiani rimasti ancora a Fiume fu richiesta l’opzione: bisognava decidere se assumere la cittadinanza jugoslava o abbandonare il paese. La mia famiglia optò per l’Italia e conobbe un anno di emarginazione e di persecuzioni. Fummo sfrattati dal nostro appartamento e costretti a vivere in una stanza con le nostre cose accatastate. I mobili furono venduti quasi tutti in previsione dell’esodo. Il papà perse il posto e, poco prima della partenza, fu imprigionato per aver nascosto due valigie di un perseguitato politico che aveva tentato di espatriare e, catturato, aveva fatto il suo nome…Ero più grande, più riflessiva e matura. E’ così che ricordo la mia Fiume- le sue rive ampie, il santuario di Tersatto in collina, il teatro Verdi, il centro dagli edifici cupi, Cantrida- una città di familiarità e di distacco, che dovevo perdere appena conosciuta. Tuttavia quei timidi e brevi approcci hanno lasciato in me un segno indelebile. Io sono ancora quel vento delle rive, quei chiaroscuri delle vie, quegli odori un po’ putridi del mare e quei grigi edifici”
Nel 1949 la famiglia, tranne il padre che giungerà in seguito, ottiene il visto per l’espatrio e arriva a Trieste:
“La prima impressione che provai al mio arrivo a Trieste, dove i nonni Quarantotto, la zia Teresa e la famiglia della zia Nina ci avevano preceduti di qualche mese, fu quella di giungere in un paradiso terrestre, in una terra promessa. Il movimento per le strade, il pane bianco, l’abbondanza nelle edicole di quotidiani, settimanali e giornalini a fumetti, le merci esposte nei negozi, il modo di vestire della gente mi sembrarono l’espressione di una ricchezza favolosa. Anche la presenza di soldati inglesi e americani, che avevano scarpe lucidissime e che vidi offrire gomme da masticare ad alcuni ragazzini, non finiva di stupirmi…Fummo subito accolti come profughi e inviati al campo di raccolta del Silos, dove già erano stati alloggiati la zia Nina con la famiglia e i nonni. Le nostre masserizie- qualche coperta, un tavolo e alcune sedie, i materassi che non erano stati venduti e dei cassoni contenenti la biancheria di casa, i libri del papà e i nostri abiti- ci avrebbero raggiunto qualche tempo dopo. Al momento non avevamo letteralmente nulla con noi.”
Marisa e la sorella Lucina vengono mandate dagli zii, una a Venezia, l’altra a Como. A Venezia, al Lido, Marisa frequenta la scuola media presso un istituto parificato, il Campostrini, retto da suore e dotato di un collegio femminile in cui la ragazzina è accolta dietro il pagamento da parte della Postbellica di una modesta retta mensile. Alla fine dell’anno scolastico torna a Trieste per riabbracciare la mamma e il papà, nel frattempo uscito di prigione:
“ Feci così la mia prima conoscenza del Silos, dove vivevano accampati migliaia di profughi istriani, dalmati o fiumani come noi. Era un edificio immenso di tre piani, costruito sotto l’ impero absburgico come deposito di granaglie, con un ampia facciata ornata da un rosone e due lunghe ali che racchiudevano una specie di cortile interno, dove i bambini andavano a giocare a frotte e le donne stendevano i panni. L’esterno di questo edificio è ancor oggi visibile vicino alla stazione ferroviaria. Il pianterreno, il primo e il secondo piano erano quasi completamente immersi nel buio. Il terzo era invece rischiarato da grandi lucernai posti sul tetto, che però non potevano essere aperti. In ogni singolo piano lo spazio era suddiviso da pareti di legno in tanti piccoli scomparti detti “box”, che si susseguivano senza intervalli come celle di un alveare. Si aprivano tra di essi strade maestre e stradine secondarie di collegamento. Anche le strade avevano nomi di riconoscimento: la strada della dalmata, quella dei polesani, la via della cappella o quella dei lavandini…
Entrare al Silos era come entrare in un paesaggio vagamente dantesco, in un notturno e fumoso purgatorio. Dai box si levavano vapori di cottura e odori disparati, che si univano a formarne uno intenso, tipico, indescrivibile, un misto dolciastro e stantio di minestre, di cavolo, di fritto, di sudore e di ospedale…Anche i rumori erano molteplici e formavano un brusio uniforme, dal quale si levavano ogni tanto le note acute di qualche radio, una voce irata, colpi di tosse o il pianto di un bambino…
Il nostro box era tra quelli fortunati del terzo piano, proprio sotto un lucernaio. Era formato da due piccoli ambienti, di cui uno serviva da cucina, quasi tutto occupato dal tavolo e dalle sedie, e l’altro da stanza da letto comune. Nella cucina era stato ricavato uno sgabuzzino che fungeva da deposito di scope, rifiuti, bottiglie vuote, scarpe, giornali e riviste vecchie. C’erano anche parecchi secchi e catini che nelle giornate di pioggia, venivano disposti in vari punti del box per raccogliere l’acqua che filtrava in piccoli rivoli dal tetto…A pranzo e a cena tutta la famiglia si metteva in cammino per raggiungere da piazza Libertà la mensa di via Gambini e spesso, quando la nonna non se la sentiva di fare quel lungo tragitto a piedi, la mamma le portava il pasto a casa, in una gamella.”

Trieste, il Silos
Così tra la scuola d’inverno e il Silos d’estate passano altri due anni e conseguito con buoni voti il diploma Marisa viene incoraggiata ad iscriversi al liceo, che sarà il Dante Alighieri di Trieste. Sarà anche il ritorno stabile al Silos:
“ Non mi era facile conciliare la realtà della mia vita al Silos con quella esterna, in cui gli studi mi portavano. I miei professori e le mie compagne di classe, con cui pure familiarizzai verso la fine del ginnasio, non sapevano quasi nulla di me, della fatica che mi costava studiare nel freddo e nella confusione, non immaginavano il mio disagio d’essere vestita sempre con la stessa gonna, fortunatamente nascosta dal grembiule nero d’obbligo. Provavo vergogna della mia condizione. Del Silos non parlavo mai con nessuno e speravo ardentemente di riuscire a mantenere il segreto della mia abitazione il più a lungo possibile…Se mi chiedevano dove stavo, arrossivo e facevo un vago cenno con la mano, indicando approssimativamente una zona compresa tra la stazione, Barcola e Miramare.”
L’acquisto, finalmente, di una casa vera, la casa di via Piccardi, grazie al gruzzolo messo da parte da nonna Quarantotto, consente alla famiglia di raggiungere la desiderata tranquillità. E’ la conclusione di un iter travagliato e doloroso, ma che non si riesce a percepire, a differenza di altre narrazioni dell’esodo, come drammatico. Non c’è nessun astio o risentimento nella rievocazione di quello che è pur sempre agli occhi della bambina un Eden perduto, o dei difficili anni del Silos: quel che si coglie è invece un sentimento irriducibile della vita che non muore, di una speranza che si accende anche nei momenti che potrebbero apparire più disperati. Che sono i sentimenti della donna adulta in un momento particolare di quella vita, di cui si appresta a trarre il bilancio. Ne trascrivo qualche passaggio, ben consapevole dell’arbitrarietà di questi tagli, che incidono un tessuto strettamente unitario in cui ogni parte si corrisponde:
“ Al Silos i mesi passavano tutti uguali. Solo le estati cominciavano a sembrarmi più lunghe, più luminose….Lucina ed io andavamo quasi ogni giorno al mare…Un giorno mentre stavo tornando dalla spiaggia prima del solito, a causa di un breve e violento temporale estivo, saltellando da una pozzanghera all’altra, mi fermai d’improvviso e vidi sopra di me un cielo dilatato, cavalcato da grandi nuvoloni…In fondo, alla fine del golfo, si stagliavano nitidi e ravvicinati i contorni delle case e del campanile di Pirano. Un po’ più lontano, oltre l’Istria, pensai, c’era la mia città, sopra la quale quei nuvoloni sarebbero presto arrivati. Ma non provai rimpianto. Qui c’erano le stesse onde, lo stesso cielo, lo stesso vento. Mi sentii d’un tratto a casa. Ripresi a correre, saltellando, col cuore pieno d’allegria.”
“ Vivo come ho sempre desiderato di poter vivere: l’amore e l’esistenza condivisa, i figli, la casa e tanti affetti dentro e fuori di essa. Che importa se ho faticato, se il male è venuto e passato, se qualche nube ha turbato il mio orizzonte sereno, se gli anni passano veloci. Il verde Urucuia scorre a valle con anse sinuose e acque profonde, rispecchiando i colori dell’alba e le ombre della sera.”(21 febbraio 1983)
“ La mia amica mi prestò anche Guerra e pace, che fu per la mia disadorna adolescenza una folgorazione e divenne il parametro segreto di ogni mia aspirazione e ideale di vita. Mi innamorai di Natascia, di Maria, di Sonia del principe Andrea, di Pierre Bezuchov. Con loro piansi e sognai. La vita al Silos mi sembrava più sopportabile se alla fine Natascia sposava Pierre e diventava una mamma dai fianchi robusti, se il principe Andrea moriva guardando il cielo profondo sopra il suo capo e Sonia si dipingeva i baffi col nerofumo sul bel volto acceso di passione. La vita dunque, fuori, era grande, bella, dolorosa e sacra e io un giorno l’avrei raggiunta.”
“ Forse un granello che ho scoperto di nuovo al seno mi ricorda l’ombra con cui dobbiamo convivere. Ogni vita porta con sé il seme della sua distruzione. Ma domani partiremo tutti assieme per le nostre isole abitate dagli dei, Cherso, Unie, Canidole, Oriule, la Levrera. Per dodici giorni sarò anche io immortale ”(10 luglio 1983)
P.S. Marisa Madieri muore il 9 agosto del 1996, vinta dal male contro cui aveva combattuto per quasi vent’anni. Verde acqua era uscito per Einaudi nel 1987. Oggi è ripubblicato dallo stesso editore insieme a La radura e altri racconti.
