Antonino Garufi, partigiano e deportato

Nell’occasione, questo 25 Aprile, dell’intitolazione da parte dell’Amministrazione Comunale di una via di Giarre al concittadino Antonino Garufi(1918-1997) mi piace riproporre, con le opportune modifiche, quanto già ebbi a scrivere in sua memoria su Gymnasium, l’annuario del liceo classico “ M. Amari”, alcuni anni fa.
“Scrive Primo Levi nella prefazione a Se questo è un uomo: “Il bisogno di raccontare agli <altri>, di fare gli <altri> partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari: il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore.”
Antonino Garufi ha condiviso una storia comune a tanti che hanno conosciuto gli orrori della deportazione nei lager nazisti. In particolare rientra tra quei militari meridionali che rimasti intrappolati dopo l’8 Settembre al Nord Italia hanno scelto, rifiutando di aderire alla Repubblica di Salò, di prendere la via dei monti e di entrare nelle file della Resistenza. Catturato, deportato,. sopravvissuto non ha smesso di raccontare, soprattutto nelle scuole, la sua vicenda, tanto che anche per lui, come per altri accomunati dallo stesso destino, si può dire che l’impegno di testimoniare abbia costituito lo scopo primario della restante vita.
Chi scrive non può dimenticare l’incontro avvenuto al nostro Liceo classico “ Michele Amari”, il 27 gennaio del 1995, con Antonino Garufi e altri due deportati, entrambi linguaglossesi, Nunzio Di Francesco e Salvatore Incorpora; la commozione di tutti, alunni e professori, nell’ascoltare le loro parole.
Anche per loro la spinta a non tacere ha trovato nella forma libro la sintesi più chiara e, in un certo senso, definitiva. Messe per iscritto da subito, al rientro a casa, in quaderni o fogli volanti, in un paese che aveva voglia di dimenticare le sofferenze della guerra e che non aveva conosciuto la lotta partigiana, solo verso la fine degli anni ’80 queste memorie hanno incontrato un clima più favorevole alla pubblicazione, avvenuta anche grazie all’apporto di esponenti della cultura democratica e progressista catanese. Va detto infatti che l’impegno di Garufi e Di Francesco non è rimasto circoscritto alla cerchia iniziale di parenti e amici ma, attraverso la partecipazione sia all’Anpi, l’Associazione dei partigiani italiani, che all’Aned, l’Associazione degli ex deportati, ha conosciuto quella dimensione più propriamente politica che ha poi propiziato la diffusione più ampia dei loro ricordi.
Il Diario di un deportato di Antonino Garufi, dopo una lunga elaborazione, ha visto la luce nel 1990 per i tipi della casa editrice Gelka di Palermo e ad opera di tre docenti dell’Università di Catania: Felice Rappazzo, il curatore, Nino Recupero, autore di una nota storica, e Salvatore Claudio Sgroi, che vi ha aggiunto una postfazione linguistica.
L’autore, carabiniere fino all’8 Settembre e poi partigiano nella brigata Osoppo, racconta della tremenda esperienza della deportazione, a partire dalla cattura, avvenuta a Faetis, nei pressi di Udine, il 29 Settembre del ’44, fino alla liberazione il 13 Aprile 1945. Dachau, Buchenwald, Ohrdruf le tappe del suo viaggio agli inferi. Quando è liberato pesa 40 kg, un uomo di un metro e ottanta. Tornerà a Giarre cinque mesi dopo.
Contadino e muratore, Garufi ha studiato fino alla quinta elementare.” La sua scrittura non si attiene ai canoni della lingua codificata, ma ortografia, grammatica e sintassi rimandano alla cultura dell’oralità, a quell’<italiano popolare>, che è la forma con cui storicamente le classi subalterne dei semicolti dialettofoni si sono impossessati della lingua scritta. L’autore tende a scrivere come parla e ad ortografare secondo la pronuncia, nella varietà del siciliano orientale.”(S. C. Sgroi).
Prima di leggere il passo in cui Garufi narra del suo arrivo a Dachau è bene tener presente l’ avvertenza del curatore: “Non bisogna dimenticare che non di un testo letterario si tratta, ma di un documento. La fedeltà al manoscritto originale è innanzitutto un atto di elementare rispetto.”(F. Rappazzo)”

Il libro di Antonino Garufi
Il mattino del 5 ottobre 1944 alle ore 8 siamo giunti alla stazione di Monaco di Baviera siamo in sosta- Alle ore 9 suonano le sirene le batterie contraerea apre il fuoco i carri una volta abattevano a testra una volta a sinistra- Ad un certo punto non abbiamo capito più nulla tanto panico- al nostro treno non ha successo nulla tutti salvi- Il treno ripartì abbiamo fatto sei otto km il treno si fermò definitivamente, i portelli scorrevoli vengono aperti brecce di luce abagliono i nostri occhi disabituati-
Dobbiamo scendere al più presto saltare dal carro sulla banchina siamo stecchiti di fame assetati ci siamo dimenticati ormai di mangiare di Bere-Cadeva panne di neve soffiava un venticello filtrante e freddoso- soldati della Wechrmacht e soldati della es. es. con la testa di morto sul berretto urlavono a farci tremare di paura- Qualcuno anziano cadeva tra i binari- nella stazione lesse la tabella << Dachau>>- L’orologio segnava ore 13- I ferrovieri tedeschi guardavono stupiti dell’interno nessun civile sostava in stazione- Cani lupi tenuti con il quinzaglio pronto allo scatto- Giunsimo una larga strada di tericcio più o meno diritta, da lontano scorgemmo il grande castello della prigione tedescha- Grande ammassamento di gente di tutta Europa sentivo parlare linque differenti di uno con l’altra chi andava chi rotornava chiamavano fra amici o parenti fratelli sorelli figli anche fra noi amici ci si sperdeva- Donne in cinta piangevono figli minori si davano la manina uno con l’altro vecchi etti che non potevono camminare si ne vedevano cose orribile- Piangevo in silenzio preferivo che mi avrebbero fucilato non vedere lo strazio in’umano- Una donna col bimbo in braccio piangevono tutti due la madre gli dava la mammella ma latte non c’e ne aveva il bimbo gridava sempre di più- Gente cenciosa macra e molto sporchi sa quando tempo di sofferenza- Vidi anche dei carabinieri Italiani al servizio della es. es. ne pregai uno dicendogli<< questo è l’indirizo di mia madre, scrivergli>>- Svoltiamo sulla destra siamo lì a guardare quel grande carcere Antico in muratura- Tutte le grade esterne sono rugginite- Una trentina di metri un grande portone di legno in vecchiato nell’arco rotondo in pietra…
Il grande portone si apre i soldati della es. es. urlano<<laos laos snel snel>>[via, via, presto!] mi accorgo ai due lati un cane lupo per parte in pietra o in cemento, colorati verde con aspetto di assalto mostrando le due potenti denti, entriamo stupiti nel grande piazzale- Le torette ogni cento metri- Tutte baracche in legno legate uno con le altre attorno filo spinato- Questi Es. Es.armati di nervo sul berretto teste di morto minacciosi spingevono a chi era esausto del lungo viaggio della fame della sete calcioni e colpi di bastoni- Siamo tutti impauriti infreddoliti cadeva continuamente panne di neve e un venticciuolo che filtrava nel nostro fisico- Ci siamo dimenticati di mangiare e di bere- L’ultima volta che mangiai il 26 settembre oggi 5 ottobre solo al carcere solo una rosetta perche la pasta lo rifiutata- Sono le ore 14 del 5 ottobre 44.
(Antonino Garufi, Diario di un deportato. Da Dachau a Buchenwald comando Ohrdruf, Gelka, Palermo, 1990, pp. 39- 41)
