30 Marzo 1960: la mafia uccide il Commissario Aldo Tandoy e Antonio Damanti

È il 30 marzo 1960 una coppia passeggia verso le 20.30 in Viale della Vittoria ad Agrigento sono il commissario di Polizia Cataldo Tandoy e la moglie Leila Motta. Improvvisamente un uomo esce da un portone sparando cinque colpi di pistola alle spalle delle due persone. Quattro proiettili vanno a segno colpendo l’uomo mentre il quinto uccide un ragazzo di diciassette anni Antonio Damanti, vittima casuale di quest’agguato. Si venne a sapere dopo che questo giovane aveva iniziato una collaborazione con il giornale “L’Ora”. Il dottor Tandoy era nato a Bari ed aveva 47 anni e dopo aver vinto il concorso nella Polizia venne trasferito nella città siciliana dove giunse poco prima dell’omicidio a Sciacca del sindacalista Accursio Miraglia. In poco tempo riuscì a fare una carriera assai brillante essendo un valido investigatore e cominciò quasi subito ad occuparsi di mafia scoprendo le collusioni con i politici. Infatti Aldo Tandoy aveva fatto arrestare sei mafiosi accusati di essere i responsabili dell’omicidio proprio di Miraglia, ucciso dalla mafia il 4 gennaio 1947, anche se poi costoro furono assolti in istruttoria. Gli stessi mafiosi denunciarono il commissario Tandoy e dei poliziotti della Squadra Mobile di torture e sevizie al fine di farli confessare però la Procura di Agrigento li prosciolse per non aver commesso il fatto. Tandoy era un investigatore determinato e nel 1951 riuscì a svolgere indagini efficaci sull’omicidio del Sindaco di Alessandria della Rocca Eraclito Giglio, affiliato alla mafia. Tandoy aveva saputo da alcuni informatori che il delitto era stato deciso durante un incontro di mafiosi in una chiesa di Aragona e stava per arrestare il sicario però arrivò con pochi minuti di ritardo in quanto il killer venne a sua volta ucciso.
Nel 1959 però era stato destinato a ricoprire l’incarico di responsabile dello Schedario Criminale a Roma, e, quindi, si doveva trasferire definitivamente con la moglie che rimase ad Agrigento da sola per diversi periodi. Seguì anche il delitto di un uomo a Raffadali e per tale caso trattenne in questura per due giorni tale Mangione, guarda caso presunto guardaspalle dei politici democristiani ,i fratelli La Loggia. In Sicilia regnava un’omertà assoluta e nonostante lui fosse ben consapevole di chi potesse essere l’omicida non riuscì ad andare avanti. Tandoy era amico di Aldo Moro con cui aveva frequentato la scuola insieme e intendeva sfogarsi e rilevare al segretario della Dc il clima torbido in cui operava il suo partito nella provincia di Agrigento, riferendogli appunto i segreti delle collusioni con la mafia . Le indagini sul delitto di Tandoy si orientarono in un primo momento sulla pista passionale in quanto si era scoperto che la moglie Leila Motta tradiva il Commissario e aveva un amante. Si fece in quell’occasione il nome dell’esponente della Dc, il professor Mario La Loggia, direttore dell’ospedale psichiatrico di Agrigento e fratello dell’ex Presidente della Regione Siciliana Giuseppe. Anzi furono arrestate sia la moglie Leila Motta, sia Mario La Loggia come mandanti dell’omicidio del commissario.

Però furono rimessi in libertà e si seguì la pista sulla sua attività professionale. Le indagini sul delitto Tandoy dal 1963 furono affidate al sostituto procuratore di Palermo Luigi Fici, che escluse la tesi della pista passionale, mentre individuò il movente del delitto nelle indagini che il commissario aveva svolto sull’omicidio di Antonino Galvano, il capo mafia di Raffadali.Le ultime indagini cui Tandoy stava lavorando prima del trasferimento a Roma riguardavano l’affare del fondo Graziano, legati ai passaggi di proprietà che venivano effettuati con minacce nei confronti dei proprietari. Il commissario naturalmente aveva i suoi confidenti, canali informativi attendibili e stava per giungere a verità scottanti. In particolare aveva indagato sull’omicidio avvenuto nel gennaio del 1959 di Antonino Galvano, un capo mafia di Raffadali. A seguito dell’indagine sull’omicidio di Tandoy vengono rinviati a giudizio ventuno mafiosi mentre il mandante venne individuato in Vincenzo Di Carlo, uomo di “rispetto” di questo comune che godeva anche del fatto di essere segretario comunale della Dc e giudice conciliatore. Tale processo fu trasferito per legittima suspicione presso la Corte d’Assise di legge e nel 1968 furono emesse otto condanne all’ergastolo tra cui anche Di Carlo. Vi furono in totale di 175 anni di carcere per gli altri quattordici imputati. Questo verdetto venne confermato i dalla Corte di Cassazione il 28 febbraio 1975.Come per quasi tutti i delitti eccellenti molti aspetti non chiari dell’intera vicenda rimasero in sospeso e in particolare si parlò di un memoriale del commissario che non fu mai rinvenuto e trovato.