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“Dove tornare” di Fulvio Tomizza

Se”Materada”(1960), l’opera prima di Fulvio Tomizza, è il libro dell’esiliato, “ Dove tornare”(1974), e in particolare il quarto e ultimo capitolo, “La casa in campagna”, è il libro del reduce, di chi dopo vent’anni ritorna al paese d’origine abbandonato in seguito al Memorandum di Londra del 1954 che assegnava alla Jugoslavia anche la zona B dell’Istria. Sotto forma di lettera-confessione ad un’amica che vive oltre la cortina di ferro lo scrittore rievoca le vicende che lo portarono a fare ritorno ai luoghi dell’infanzia e dei dolorosi ricordi.

“Mi premeva una smania di fuga…parecchi dei paesani rimasti a Trieste si stavano riparando la casa in Istria, collocando cessi dove mancavano e allargandoli, se c’erano, a bagni col bidet. Pareva che l’autorità fosse ora tutta occupata a sanare l’economia nazionale e non si mostrasse insensibile alla valuta pregiata già ritenuta merce del diavolo. Dove altrove potevo andare e dove soprattutto tornare? Decidemmo per l’Istria. “

Tomizza ha quasi quarant’anni, ha al suo attivo tre romanzi, il già citato “Materada” che forma con “La ragazza di Petrovia”(1963) e “Il bosco di acacie” (1966) la cosiddetta “Trilogia istriana”, i tre tempi dell’odissea degli italiani d’Istria: la fuga, il soggiorno nei campi profughi, lo straniamento della vita che riprende in altri luoghi. E’ uno scrittore già noto, seppur confusamente anche dove si accinge a far ritorno, ma questo non gli è di grande aiuto, prevalendo tra gli abitanti la diffidenza per il nuovo venuto.

Tomizza a Momichia

“ I più giovani credevano d’intravedere nel mio rimpatrio segreti e audaci scopi…Lo starmene appartato, anziché rassicurarli, faceva accrescere i sospetti…Si poneva tra noi incolmabile una troppo stridente lontananza di cultura, mentalità e indirizzo di vita. Per loro, legge eterna, niente si fa per niente e nessuno dà niente per niente.”

C’è anche, corollario a questo clima che il protagonista avverte intorno a sé, la convocazione presso un funzionario dell’ufficio di polizia di Umago, cittadina ormai centro turistico in via di tumultuoso sviluppo. “ Aveva una faccia ruvida e franca di ex partigiano ormai incapace di accigliarsi dopo vent’anni di regime sicuro e tranquillo che aveva indubbiamente segnato un progresso sempre crescente…Fu un discorso lungo quanto vago, dal quale capii che la mia presenza dava fastidio o semplicemente sollevava sospetti in alcune persone del paese. Non si riusciva a comprenderla e un po’ strideva, ecco tutto…aveva voluto soltanto avvertirmi, gli era sembrato più che doveroso.”

Si snoda così, tra riflessioni amare e ricerca dell’eden perduto, il racconto dell’acquisto e del restauro di una casa abbandonata in una frazione contigua al luogo natio, troppo grande essendo la casa di famiglia, anch’essa in rovina, e troppo dolorosi i ricordi, ad essa legati, del padre soprattutto, due volte arrestato, costretto all’esilio triestino, tornato infine a morirvi.

 Momichìa invece, il vicino borgo, sembra incarnare l’oggetto del desiderio : “ Qui tutto funzionava con disposizione e cura immutate: la mola per arrotare appoggiata al tronco del gelso, il cane alla catena, in prossimità del pollaio, la buca della calce vicino alla concimaia, il falcetto immancabile sotto la cintura dei pantaloni, le donne che si prestano il pane da casa a casa non senza coprirlo con un tovagliolo bianco.”

Qui , “tra rovi e siepi altissime” gli appare la casa rovinata del ferroviere, eccentrico personaggio dei tempi della sua infanzia, lasciata in eredità a un nipote che non vede l’ora di disfarsene. “ La casetta aveva un suo fascino…ispirava una povertà appartata ma tutta aperta alla luce e perciò decorosa; ben s’adattava all’umiltà del mio desiderio d’isolamento e alla discrezione che doveva accompagnare l’eventuale ritorno.”

Di questa casa, oggi sede della fondazione intitolata allo scrittore, ci ha lasciato una descrizione recente Mauro Covacich, nella prefazione a “Materada”:

“ La casa mi viene incontro da sola. E’ adagiata su un declivio erboso in fondo a una stradina della frazione di Giurizzani chiamata Momichìa(Donji Picudo). La riconosco subito: le imposte blu, i muri a vista, il vecchio torchio di pietra trasformato in tavolo da giardino, i roveri sotto i quali Tomizza è ritratto in alcune foto mentre, a suon di vanga, libera gli alberi dai rampicanti. I suoi roveri, misura del mondo: < Due giovanottoni alti e grossi come due roveri >.”

La casa di Tomizza a Momichia( Materada)

“Materada” è scritto a ridosso, sei anni dopo, dell’uscita degli italiani dall’Istria, ribolle delle passioni, dei dubbi, delle lacerazioni di quegli anni. Qui son passati vent’anni, ed è il tempo dei bilanci:

“ C’è l’osteria, dove il biliardo era stato soppiantato dal televisore”; la scuola italiana,  concessa dal governo di Vienna, ma dove cinquant’anni dopo si decise d’insegnare soltanto il croato; il casermone del Dom, con negozi di alimentari e materiale agricolo, centro di vita anche per gli sparsi villaggi, opera dell’ultimo regime…con carri di buoi che aspettano di vendere e pesare patate e pomodoro in fila con piccole trattrici  comperate in Italia, automobili di funzionari di Buje e Umago ma anche di oriundi che tornano da Trieste a far rifornimento di carne e si mescolano ai rimasti per offrire bibite e sigarette e lasciarsi ammansire in un finto burlare e accusarsi troppo forte in entrambe le lingue…increduli gli uni e gli altri di un insperato e non favorito raccomodamento che non danneggia nessuno.”

“ Che cosa restava del mio mondo e della mia gente? “ Un interrogativo che è un’amara conclusione. Lo straniamento non è solo quello di chi ha dovuto allontanarsi per sempre e cercare altrove un’altra vita, è anche quello di chi è tornato spinto da una nostalgia rivelatasi illusoria, perché il mondo sognato è cambiato e anche le persone non favoriscono il riavvicinamento:

E’ un carcere ideale quello di cui il narratore si sente prigioniero, “ senza alcun secondino che mi spiasse dal pertugio di una delle siepi, ma che pure esisteva ed era invariabilmente scontento del mio contegno, sia che passeggiassi in ozio, sia che prendessi la zappa o un libro in mano. Sarebbe stato facile sottrarsi, mandare tutto al diavolo anche questa volta, ma dove andare, dove tornare? “

La risposta a questo interrogativo che può sembrare strettamente personale, non recidere i legami con i propri cari in quella terra sepolti, vale in realtà come testimonianza collettiva di un radicamento, un abbarbicamento, che supera ogni limite creato artificiosamente dagli uomini, in linea con la visione rappacificata de  “La miglior vita”, di tre anni più tardi.

“Mio padre continuava a stare là, confinato al muro di cinta sul quale spicca la sua foto insieme a quelle della madre e di una zia…Ecco esattamente, sicuramente, dove tornare.”

 Oggi anche Fulvio Tomizza è sepolto lì: lo ricorda una lapide, trascritta e commentata da Mauro Covacich:

“ Passò a miglior vita/ Prijede u boli zivot/ Odsel v bolise zivljenje

                              FULVIO TOMIZZA

                       Scrittore/ Knjizevnik/ Pisatelj

                      Materada 1935 – Trieste 1999 

                 Qui riposa/Pociva obdje/Pociva Tukaj

 Italiano, croato, sloveno, le tre lingue del posto, iscritte anche solo nella grafia dei nomi sulle altre tombe di famiglia: sorelle, cugini, nonni, che son partiti Hrvat, sono arrivati Crovatin e sono tornati Rovatti, per morire qui, uniti sotto la stessa lastra di marmo.”

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Paolo Daniele è stato docente di Latino e Greco al Liceo “ Michele Amari” di Giarre. A questa scuola, dove ha studiato e insegnato per quasi tutta la sua carriera, ha dedicato parecchie delle sue ricerche, soprattutto profili di docenti e riflessioni intorno alla didattica delle lingue classiche, confluite negli annuari del liceo da lui curati. In quest’ambito è nato anche il suo interesse per il poeta Santo Calì, che all’Amari ha insegnato negli anni Sessanta. A Calì ha dedicato studi sia sulla sua attività nella scuola(”Santo Calì, il professore”, un’antologia di scritti composta insieme al preside Girolamo Barletta) sia sui rapporti della sua poesia con la classicità(“Santo Calì e il mondo classico”, in Atti del Convegno Nazionale di Studi, Linguaglossa, 16-19 dicembre 1982).

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