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Ritorno a Tomizza. La miglior vita

“ Sempre avevamo creduto che la parrocchia avesse avuto inizio con la venuta del capo Zorzi Radovan sfuggito all’avanzata turca in Albania e sepolto, come risultava dalla pietra tombale, nel 1676. Doveva aver combattuto a fianco dei Veneziani contro i Turchi poiché una benda nera gli attraversava la fronte; e giunto a Umago con un bragozzo carico di figli e di nuore, aveva comandato ai maschi d’inoltrarsi nel bosco e di non fermarsi finché non avessero incontrato l’erba dell’habat( sambuco selvatico) che cresce solo in terra buona.”

Chi parla è il protagonista del romanzo, che fu Premio Strega nel 1977 e che recenti ricordi mi hanno indotto a riprendere in mano. Fulvio Tomizza, istriano di Materada,   a nord ovest della penisola, tra Buje e Umago, di padre italiano e madre di origini slave, immagina che il sacrestano di un villaggio dei dintorni, Martin Crusich, slavo anch’esso, ripercorra sulla scorta di antiche carte parrocchiali e, soprattutto del proprio vissuto, la storia del suo borgo: una storia che si dipana dagli inizi del ‘900 agli anni ’70, con incursioni nel passato più antico; perché il nostro è un sacrestano erudito, cresciuto tra le carte parrocchiali e i libri che i vari parroci lasciavano in canonica.

Materada

Questo doppio registro testimoniale consente a Tomizza da un lato di scavare nel passato remoto dell’amata terra delle origini – lo scrittore visse il dramma dell’esilio – dall’altro di commentare le vicende storiche, della grande storia, che hanno investito questo piccolo villaggio, passato da Venezia agli austriaci, poi, dopo un breve intermezzo napoleonico, ancora all’Austria, all’Italia con la Grande Guerra, alla Jugoslavia infine.

Radovani, il nostro villaggio, appartiene all’entroterra  croato, in collina, ma non distante dalla città veneziana sul mare, Umago. Già in questa antitesi, città- campagna,  coloni- signori, si evidenzia la radice del conflitto interetnico che, dopo aver covato sotto le ceneri, si manifesta apertamente con la nascita del Regno d’Italia per esplodere col grande conflitto mondiale e proseguire poi nei turbolenti anni del fascismo e della lotta partigiana. Come guarda a queste vicende Tomizza, la cui famiglia subì nel secondo dopoguerra l’esproprio dei beni e fu costretta all’esilio? Lui italiano e pure slavo ? La storia del suo alter ego, Martin Crusich, è quella di un io diviso, che conosce benissimo i risentimenti del mondo contadino da cui proviene:

 “ Quanto rancore, quanta risolutezza e quali discorsi serrati egli(il futuro capo dei comunisti slavi del villaggio) non aveva covato zappando per tutti quegli anni di silenzio il proprio filare e pascolando l’armenta lungo i margini della vigna.”;

 e al tempo stesso non nasconde la nostalgia per il passato italiano:

 “ Soltanto l’Italia degli stadi domenicali assordanti, dei festival canori, dei comizi dei vari partiti, delle insegne luminose – quell’Italia rimasta bloccata a Trieste, dove noi continuavamo a recarci anche settimanalmente – avrebbe potuto riportare tutti i contadini nei campi, far tornare sui loro volti il sorriso mite e rispettoso.”

L’utopia italiana, il sogno irenico di un “ punto d’incontro tra genti differenti solo nel parlare” affiora spesso nel libro:

 “ Eravamo in guerra, continuavamo a trovarci in piena guerra per l’eterna questione dell’essere italiani e dell’essere slavi, quando in realtà non eravamo che bastardi.” ;

oppure , dopo il Memorandum di Londra, che assegnava definitivamente l’Istria alla Jugoslavia:

 “ Partì dal sessanta al settanta per cento della popolazione, con camion stracarichi di suppellettili e dell’entrata di quell’estate, nei carri tirati dai manzi come uscissero nei campi…Erano figli e pronipoti di una gente che soltanto a partire dalla mia giovinezza aveva appreso di essere italiana o di essere slava e che poi un intrecciarsi di animosità e di istigazioni, apertesi proprio con quella scoperta forzata, con quella scelta ugualmente imposta, aveva obbligato a riconfermare la prima fede oppure a smentirla.”

L’Istria

E’ “ la miglior vita “ che tramonta, ormai sogno che accompagna gli ultimi giorni del protagonista, confondendosi con l’altra “ miglior vita” che lo attende:

“ Ho dato un’occhiata alla finestra lisciando il vetro appannato col dorso della mano, e sono giunto alla scrivania con un estremo sforzo di volontà. Da un sole che non vedevo, sul campanile, sulla chiesa e sul muro bianco di cinta cadeva una luce appena dorata. Dentro a questa luce tutte le cose liberate dalla loro pesantezza, quasi svuotate da ogni materialità, parevano mescolarsi e sollevarsi insieme. Scende sulla terra il vuoto dei cieli o su di noi si spalanca la miglior vita? “

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Paolo Daniele è stato docente di Latino e Greco al Liceo “ Michele Amari” di Giarre. A questa scuola, dove ha studiato e insegnato per quasi tutta la sua carriera, ha dedicato parecchie delle sue ricerche, soprattutto profili di docenti e riflessioni intorno alla didattica delle lingue classiche, confluite negli annuari del liceo da lui curati. In quest’ambito è nato anche il suo interesse per il poeta Santo Calì, che all’Amari ha insegnato negli anni Sessanta. A Calì ha dedicato studi sia sulla sua attività nella scuola(”Santo Calì, il professore”, un’antologia di scritti composta insieme al preside Girolamo Barletta) sia sui rapporti della sua poesia con la classicità(“Santo Calì e il mondo classico”, in Atti del Convegno Nazionale di Studi, Linguaglossa, 16-19 dicembre 1982).

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