Adùlteri e adultèri nel primo teatro di Pirandello

Le biografie bene informate riferiscono di un Pirandello turbato, già da bambino, dalle continue infedeltà coniugali del padre, quasi sempre perdonate, sì, dalla consorte, ma in un contesto di vita familiare carico di tensioni e di scenate. E spiattellano pure qualche episodio esilarante, al limite del boccaccesco, come quello nel quale Luigi, ormai studente in un liceo di Palermo (dove il padre, a seguito del primo dissesto finanziario, si era dovuto trasferire con la famiglia per dirigere un deposito di zolfo di proprietà del fratello maggiore), sorprende il genitore con l’amante nel parlatoio di un convento, complice l’anziana madre badessa, zia di lui: eventi, certo, non straordinari, in grado di ingenerare, tuttavia, conflitti insanabili fra figlio e padre, destinati a durare anche quando quest’ultimo, ormai vecchio e povero, troverà ospitalità, dopo la morte della moglie, nella casa di Luigi a Roma.
Quelle stesse biografie, peraltro, non trascurano di sciorinare altri due significativi elementi dell’esperienza vitale pirandelliana, che potrebbero collegarsi alla tematica dell’infedeltà nella coppia.
Il primo riguarda il fidanzamento di Luigi con la cugina Lina, di quattro anni più anziana, di cui egli s’era pazzamente innamorato. Fu un innamoramento accettato con tiepidezza dalla donna, in un momento di delusione sentimentale per la fine di un suo precedente amore, e non privo di contrasti nell’ambito delle rispettive famiglie (tant’è vero che quella di lei pretese che il giovane abbandonasse gli studi per dedicarsi – a tempo pieno, come si dice oggi – al commercio dello zolfo nell’azienda paterna).
In tale circostanza, il giovane Pirandello seppe cavarsela: dopo le vacanze estive, convinse il padre a iscriverlo alla facoltà di legge e lettere dell’università di Palermo; nel frattempo, ebbe modo di valutare con lucidità il suo sentimento e il suo rapporto con la cugina-fidanzata: sentimento e rapporto caratterizzati dalla carenza di slanci affettivi da parte della donna, da pesanti interferenze parentali e corroso forse dal tarlo della gelosia, dal sospetto, insinuatosi poco a poco nella mente del futuro drammaturgo, che la nubenda fosse infedele. Il fidanzamento si protrarrà stancamente l’anno successivo, quando Luigi si traferirà a Roma per proseguire i suoi studi, e finirà, poi, senza clamori.
Il secondo elemento attiene, invece, alla stessa vita coniugale di Pirandello: Luigi prende moglie a Girgenti nel 1894. La sposa, Maria Antonietta Portulano, figlia del ricco socio del padre, gli porta una cospicua dote. Ha ventidue anni (quattro in meno del marito) ed ha studiato presso le suore del paese, dove, orfana di madre, è stata severamente educata. Il matrimonio è combinato ed attentamente negoziato dalle famiglie: i due sposi neppure si conoscono.
I primi dieci anni di convivenza scorrono, sia pure fra alti e bassi e non poche incomprensioni (sembra – attestano le solite biografie bene informate – che la notte delle nozze Luigi si sia astenuto, forse per mancanza di confidenza con la sposa o forse per eccesso di tatto, dall’adempiere i doveri coniugali; atteggiamento non apprezzato da lei, che, a causa dell’educazione ricevuta e di una connaturata fragilità psichica, interpretò quell’astensione come rifiuto e ne riportò un forte trauma).
I problemi, però, devono essere iniziati sùbito, con le difficoltà di ambientazione di Maria Antonietta a Roma, in una realtà socio-culturale radicalmente diversa da quella provinciale di Girgenti, alle prese con un marito di cui non afferra pensieri, aspirazioni, fantasie, e della cui esigenza inventiva (compreso il linguaggio “alto” che Luigi condivide con gli amici intellettuali) non riesce a cogliere l’esatto senso.
La crisi esplode nel 1903, allorché si verifica il secondo tracollo finanziario del padre di Pirandello, in seguito all’allagamento di una zolfatara su cui, oltre ai propri capitali, l’uomo aveva investito anche quasi tutta la dote della nuora.
Maria Antonietta ne apprende la notizia da una lettera letta in assenza del marito: il quale, rincasando, la trova a letto semiparalizzata per lo shock. Ripresasi dopo oltre sei mesi di cure, la donna non ritroverà più il suo, già instabile, equilibrio e si renderà protagonista di violente scenate di gelosia, incentrate sui presunti tradimenti del marito – la sua ossessione –, in realtà esistenti soltanto nella propria delirante fantasia (arriverà ad accusarlo addirittura di rapporti incestuosi con la figlia Lietta!).
Da quanto sopra accennato, non è difficile constatare come quella dell’infedeltà coniugale, dell’adulterio, sia una tematica che affonda e dirama le sue radici nel terreno dello stesso vissuto personale dello scrittore agrigentino. Non a caso, essa risulta argomento pressoché dominante di tante novelle e del primo teatro pirandelliani, su cui la critica, tuttavia, non aveva ancora affondato il proprio scandaglio. Ma anche questa lacuna risulta colmata grazie allo studio di Anna Pavone, che affronta in modo sistematico l’argomento nel suo corposo Trame – d’adulterio (sottotitolo: Il primo teatro di Pirandello), pubblicato dall’editore Manni.

L’indagine critica si sviluppa in nove capitolo, ciascuno (tranne il nono) dedicato ad una commedia del teatro cosiddetto “borghese” pirandelliano, di cui reca l’intitolazione (e, cioè: All’uscita, Il berretto a sonagli, Tutto per bene, L’uomo, la bestia e la virtù, Liolà, Il dovere del medico, La ragione degli altri e La morsa).
Nell’àmbito dei singoli capitoli, la trattazione è ripartita in paragrafi, anch’essi titolati, in linea di massima, con i nomi dei personaggi della dramma in esame. Conclude il libro un’Appendice, essa pure titolata, che costituisce un quadro riassuntivo, storico-sociologico-giuridico, dei rapporti matrimoniali nella famiglia italiana dell’Ottocento.
L’autrice, pertanto, studia l’argomento attraverso i vari protagonisti – lui, lei e l’altra (o l’altro) –, di cui tratteggia a tutto tondo puntuali e credibili ritratti psicologici, inquadrandoli nel contesto narrativo dell’opera letteraria alla quale essi appartengono. Nel contempo, effettua rapidi e pertinenti raffronti fra la novella, successivamente trasformata in azione drammatica dello stesso scrittore, e il dramma com’è stato pubblicato ed è andato in scena, e ne evidenzia le variazioni scritturali, anche minime, intervenute negli esiti della trasformazione. Corrobora, infine, le sue riflessioni critiche sui personaggi (sulle loro psicologie, i loro tics, i loro stati d’animo, i loro atteggiamenti ecc.) nonché sulle opere cui rispettivamente agiscono, con un puntiglioso intarsio citazionale.
Nel capitolo settimo, dedicato all’analisi di Le ragioni degli altri (e alla precedente novella Il nido, di cui costituisce l’elaborazione drammatica), Anna Pavone collega il problema dell’infedeltà coniugale ai traumi esistenziali e alle ossessioni del drammaturgo. Il protagonista, infatti, è Leonardo Arciani, scrittore di belle speranze, ma dalla vena creativa inaridita a causa del matrimonio con Livia, una donna fredda, scontrosa, sposata quasi senza conoscerla: una donna che non riesce a far parte della vita interiore del marito, perché non la comprende, e che vede l’arte come una cosa inutile e priva di significato.
Qui, fa notare l’autrice, il rispecchiamento dello scrittore nel suo personaggio, pur con l’innesto di alcuni particolari di camuffamento, risulta lampante.
Davvero, in Trame d’adulterio, la Pavone riesce a rinvenire e a presentare – intorno ad un tourbillon di tradimenti, di triangolazioni amorose, di cornificatori e cornificati, ed ai connessi accomodamenti, o vendette, o suicidi, o fughe nella vera o finta follia – spunti ed argomentazioni di un’acuta e illuminante sottigliezza interpretativa. A proposito del Campa, protagonista del Berretto a sonagli, per esempio, annota: “Campa vuol far credere che il suo dolore per l’adulterio della moglie riguardi il suo essere marito, e grida vendetta, perché nessuno, in paese, possa deriderlo. La sua sofferenza concerne, invece, il suo essere uomo, ferito nell’amore che aveva per una donna, nel tacito accordo che con questa si era instaurato, nel silenzio di un disprezzo profondo che aveva per se stesso, ma che nessuno, oltre la sua coscienza, conosceva. La scoperta dell’adulterio avrebbe dovuto portare, come conseguenza, ad una crisi delle due famiglie oppure ad un loro riassetto; avrebbe dovuto condurre ad una nuova analisi del rapporto, rimettersi in gioco, cercare nella rete la maglia rotta. Invece le due famiglie ritornano alla vita precedente, senza entrare in crisi, senza chiedersi perché, solo accettando e cercando di coprire e di ritornare all’antico equilibrio. Tutto torna a reggersi sulla finzione. Perché non esploda la tragedia, Beatrice deve fingersi pazza, L’altra finzione (l’obbligo sentito da Campa di difendere il suo onore di fronte al paese) avrebbe portato morte e dolore, questa invece ristabilirà l’ordine senza modificare niente…”.