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Lidia Pöet la prima avvocatessa d’Italia

È novità di questi giorni l’uscita sulla piattaforma di streaming Netflix, di una serie TV italiana dedicata alla prima avvocatessa d’Italia Lidia Pöet. il suo fu un caso molto particolare, non soltanto perché fu la prima donna a rivestire la professione forense, ma anche perché la stessa gli fu negata dal procuratore generale del regno d’Italia che mise in dubbio la legittimità della sua iscrizione e impugno la decisione ricorrendo alla corte di appello di Torino. Lidia si laureò in giurisprudenza il 17 giugno del 1881 dopo aver discusso una tesi sulla condizione femminile nella società e sul diritto di voto per le donne. Negli anni a seguire fece pratica legale presso l’avvocato e senatore Cesare Bertea assistendo alle sessioni in tribunale. Svolse il praticantato e con il voto di 45 cinquantesimi superò brillantemente l’esame di abilitazione alla professione forense e conseguentemente richiedere l’iscrizione all’ordine degli avvocati e procuratori di Torino. La sua richiesta venne osteggiata da due avvocati Federico Spantigati e Desiderato Chiaves i quali per protesta si dimisero dall’ordine dopo che l’istanza venne accolta a seguito della messa a voto. fu così che il 9 agosto del 1883 Lidia Pöet divenne la prima donna avvocato d’Italia.

Ma la sua carriera in tal senso durò veramente poco. In quanto come sottolineato ad inizio, il procuratore generale del regno impugno la decisione ricorrendo alla corte di appello di Torino e così l’11 novembre del 1883 la corte di appello accolse tale richiesta e ordinò la cancellazione all’albo. La Pöet presentò ricorso in cassazione che però con la sentenza del 18 aprile 1884 ribadì la decisione della corte d’appello dichiarando che “la donna non può esercitare l’avvocatura in quanto la stessa è qualificata come ufficio pubblico”, questo comportava un’esclusione dato che l’ammissione agli uffici pubblici per quanto concerneva le donne doveva essere esplicitamente prevista dalla legge. Se vi era da parte della normazione un silenzio lo stesso non poteva qualificarsi come ammissione. Pertanto secondo la suprema corte vi erano anche elementi che rafforzavano tale tesi inerenti la legge unitaria sull’avvocatura dell’8 giugno 1874 numero 1938 che da un punto di vista lessicale intendeva l’avvocatura rivolta solo al genere maschile in quanto si utilizzava il termine avvocato e mai il termine avvocata al femminile. La storia di Lidia non poté essere quindi ufficialmente quella di un’avvocatessa poiché non poté mai esercitare pienamente la sua professione in quanto non ne aveva titolo secondo la corte, nonostante ciò ella collaborò con il fratello, egli ufficialmente avvocato, divenendo un simbolo nella difesa dei diritti dei minori degli emarginati e delle donne sostenendo fermamente la causa del suffragio femminile. La serie TV uscita sulla piattaforma Netflix indubbiamente mette in risalto questa figura di emancipazione femminile, ma non è stata ben accolta dagli ultimi eredi della Pöet.

La pronipote in tal senso si è espressa in modo molto negativo su come viene raffigurata la prozia, e se questo sicuramente è una nota di demerito verso la serie TV, quest’ultima però ha avuto il merito di riportare alla luce la figura di una donna che alla fine dell’ottocento, un’epoca sicuramente in cui ancora il ruolo dell’uomo prevaleva su quello della donna, ha imposto il ruolo della donna nella società in maniera ferma e irreprensibile. Nonostante questo però la legge non le diede ragione, ma indubbiamente fu un primo passo verso l’emancipazione femminile.

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Alessandro Sorace classe 1988, nato a Catania. Giurista, giornalista pubblicista, appassionato di arte, storia ed amante della cultura, del gusto e del buon vivere. Collabora da gennaio 2022 col quotidiano online "Clessidra 2021".

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