Il fascino eterno della bellezza

Giorgio Vigolo fu, secondo una felice definizione di Giacomo Debenedetti, poeta del mito: un poeta «più platonico che cristiano […], mosso verso la sua più matura espressione da un’ansia profonda di ritrovare quell’armonia increata, preesistente nel tempo, a cui le parvenze effimere del mondo paiono segretamente alludere».
Scrisse, come narratore, un solo lavoro (nel 1921) – La Virgilia – che, dimenticato nel cassetto per oltre sessant’anni, fu pubblicato nel settembre del 1982 dalla Editoriale Nuova.

Il romanzo narra, in forma diaristica sdatata, l’avventura di un giovane musicologo tedesco che, approdato nella Roma dell’Ottocento per riesumare, sceverando fra le varie carte d’archivio di palazzi patrizi e di conventi, le musiche del Cinquecento, rinviene – e trafuga – un album di musiche manoscritte del 1475, composte dal Cardinal Guidi e da questi dedicate (come si legge nel frontespizio dell’album) ad una “divina Altal…”.
Da quel momento, il musicologo, detentore inconsapevole dello spartito che può risolvere un mistero d’amore e morte del Rinascimento, deve vedersela con un colto monsignore romano, follemente invaghito di una creatura letteraria rinascimentale, bellissima e sapientissima: la Virgilia. Nella realtà storica, tuttavia, la donna non era stata soltanto un mito della letteratura: era vissuta quattro secoli prima, ma le musiche del Cardinal Guidi, eseguite su uno speciale organo ideato dal contemporaneo Regiomontano, avevano il potere di aprire il sepolcro di lei (l’armonia delle note agiva da combinazione!) e di offrirne alla contemplazione il simulacro, esemplare della Bellezza Incarnata, sottratto alla corruzione del tempo e allo scempio della morte.
Il giovane musicologo, che aveva trascorso intere notti insonni a causa di una strana musica d’organo che faceva vibrare le mura della sua camera, scopre il segreto per caso, grazie ad un amico tedesco, Ulrico Müller, ritrovato a Roma. Nel corso di una passeggiata attraverso un percorso labirintico (che si configura come una vera e propria discesa agli Inferi), il Müller lo conduce a visitare una chiesetta fuori le mura: all’interno di essa, era situata la tomba e la statua bronzea della Virgilia, «raffigurata nel suo dolce sonno eternale», con la data della morte: 2 maggio 1475.
La mente del giovane ne rimane sconvolta, entra in uno stato di allucinata esaltazione, in bilico tra la realtà e il sogno. Annoterà, infatti, nel suo diario: «Comincio ad avere l’impressione quasi di svegliarmi da un lungo sogno. O meglio comincio ad avere la certezza che tutto ciò che io credevo un prodotto soggettivo del mio animo esaltato, è reale ed esistente […]. Non mi sono illuso: la Virgilia non è stata una creazione allucinata del mio spirito fantastico. La Virgilia è vissuta. È vissuta proprio in quel misterioso Rinascimento in cui me la immaginavo, è vissuta proprio in questa Roma dove tante volte mi è sembrato di respirare l’aria che Ella vi respirò. E proprio Roma, questa divina Roma madre d’imperi e di sogni, oggi mi dà questa certezza […], la prova innegabile che la Virgilia è vissuta e morta sotto questo cielo».
Subito dopo, ecco giungergli la stupefacente rivelazione di Ulrico Müller: lui è un discendente di Giovanni Müller, che aveva latinizzato il proprio cognome in Regiomontano, uomo di scienza e geniale costruttore di organi, vissuto nel Rinascimento e misteriosamente scomparso.
Da qui in poi, la vicenda si complica, assume il taglio del thrilling, riporta alla luce storie di passioni, di morte e di tragici amori dell’età rinascimentale, del piacere della cui scoperta i lettori non vanno defraudati,
Il romanzo – fino alla suggestiva e coinvolgente esplosione conclusiva di musica, di luce e di bellezza – è giocato, con sottile intuito costruttivo, sulla rappresentazione del groviglio dei sentimenti sublimi degli “innamorati”: due esteti esasperatamente romantici, che si muovono nei meandri di un’inquietante Roma ottocentesca e papalina dalla luce notturna o rossiccia (alla Mafai o alla Scipione), compiendovi, fra vecchi conventi e dimore principesche, una sorta di viaggio misteriosofico, iniziatico, alla ricerca, nel cuore del cattolicesimo, della rivelazione di un’idea di bellezza pagana.
Delirante, mediatico, onirico-allucinato, il romanzo condensa splendidamente, dunque, tutta la tradizione romantico-metafisica nella sua scrittura barocca. Un barocco, tuttavia – ha osservato Mario Luzi –, «interpretato insieme nella luce un po’ straziata della affabulazione espressionistica e sul taglio della folgorazione romantica, come estremo dibattito e dramma dell’anima e dei suoi demoni».