“Ciclone” letterario dell’Ottocento, amato e dimenticato.Chi si ricorda di Carolina Invernizio ?

Ogni suo romanzo era come una puntata di un serial televisivo di successo dei nostri giorni: atteso da migliaia di affezionati lettori, “divorato” avidamente, commentato, dibattuto. In un tempo in cui i giornali circolavano poco ed entravano soltanto nelle case dei ricchi (gli uomini del popolo, per lo più analfabeti, preferivano il bicchiere di vino all’osteria, che almeno scaldava), Carolina Margherita Invernizio (Voghera, 1858-Cuneo, 1916), sposata Quinterno, incarnò un potentissimo veicolo di acculturamento delle classi umili: un potente mass-media che sfornava, a getto continuo, romanzi popolari e appassionava interi eserciti di sartine, commesse, modiste e mogli dei vari Monssù Travet.
La vocazione all’istruzione delle masse popolari, peraltro, non è un’idea che, con il senno di poi, si vuole attribuire alla scrittrice. Basta leggere un brano della conferenza da lei tenuta a Napoli, nel 1890, su invito della locale “Società Operaia”: “Lo scopo dell’educazione popolare deve essere di mantenere l’equilibrio fra le condizioni della società” proclamò solennemente in quell’occasione; e aggiunse: “L’istruzione deve essere come la veste adatta alla persona, in comunanza con lo stato di ognuno”.
Il brano, dal quale traspare la morale del ciascuno al suo posto, risulta rivelatore dell’ideologia conservatrice, chiusa e perbenistica, che la scrittrice possedeva e che inculcava alle masse popolari: l’identica ideologia dell’Italietta post-unitaria, quando, estesa su tutta la Penisola l’amministrazione piemontese, nacque una piccola borghesia burocratica, impiegatizia e mercantile-artigiana.
A questo pubblico, ammantato di decoro borghese (ma, in realtà, poco più che proletario), la Invernizio si rivolgeva con i suoi romanzi, nei quali lo rappresentava e ne rispecchiava virtù, vizi, costumi e aspirazioni represse, rendendolo, nel contempo, destinatario di due tipi di messaggi: l’un tipo di carattere teorico-morale (le “lezioni” sul matrimonio, sull’educazione dei figli, sulla natura degli uomini e delle donne ecc.) e l’altro di carattere ideologico (la tutela a ogni costo del buon nome della famiglia, l’attenzione all’opinione pubblica, la rinuncia a sovvertire i rapporti fra le classi sociali ecc.).
Apparentemente apolitici – e sicuramente lo furono al confronto con quelli del Mastriani che, con i Misteri di Napoli, aveva tentato di proporre, nel nostro Meridione, le idee populiste di Sue –, i centotrenta romanzi di questa “conigliesca creatrice di mondi” (la definizione è del Cassinelli) propagandavano, sotto sotto, le idee di una classe dominante che non ammetteva turbative dell’ordine costituito e che, anzi, quando per avventura qualche “deviazione” si fosse verificata, pretendeva l’immediata reintegrazione della normalità. Idee sottese alla stessa narrativa della Invernizio, dove i “buoni”, alla fine, trionfano, e i “cattivi” pagano il fio delle loro nefandezze.
Certo, non erano i moventi ideologici che spingevano la scrittrice a narrare le sue storie affollate di personaggi, ricche di colpi di scena mozzafiato, di lettere rivelatrici, di truci delitti e di luminose redenzioni, di travolgenti passioni e di vicende complicatissime di padri e figli che si ritrovano; ma, alla lettura dei romanzi, anche i moventi ideologici affiorano in modo inequivocabile.
Il fatto è che la Invernizio non fu quell’ingenua signora e scrittrice che, normalmente, si ritiene sia stata. E lo dimostrano le scelte della sua vita. Innanzi tutto, la vocazione di scrittrice: per seguirla, fu anche capace di farsi espellere dall’istituto nel quale studiava da maestra, per aver pubblicato sul giornalino scolastico un racconto di “perdizione”. Poi, il matrimonio: i genitori, preoccupati del successo della giovane (ottenuto, nel 1877, con Rina o l’angelo delle Alpi), volevano darla in moglie a un nobile di Montevarchi, ma lei si innamorò di un tenentino dei bersaglieri, Marcello Quinterno e, dopo breve fidanzamento, lo sposò. Infine, l’impiego del feuilleton: scartò l’idea del romanzo storico-popolare (alla Guerrazzi), raccolse quanto poteva esserle utile della letteratura realistica e “costruì” un romanzo popolare, che parlava un linguaggio comprensibile alle sue lettrici: un linguaggio che sapeva farle fantasticare, incuriosire, commuovere, sognare (consolarle, insomma).
A proposito del linguaggio, Umberto Eco riconosce alla scrittrice un merito di non poco conto: di essersi inventata una lingua narrativa, tutt’oggi leggibile, per la quale “non si sa se lodare maggiormente l’astuzia commerciale, l’innocenza incosciente, l’intuizione profonda”. Si tratta, specifica Eco, “dell’italiano della burocrazia, dei cancellieri di tribunali, dei banchi di lotto, dei bandi militari, dei commissariati di pubblica sicurezza, di suo marito, direttore di un panificio militare. E’ l’italiano che ancora ci affligge nei moduli postali, nelle formulazioni delle leggi e dei regolamenti […], che non disdegna al tempo stesso gli stilemi diffusi dal melodramma”.
Con un simile linguaggio, il romanzo si sviluppa secondo regole costruttive fisse: un “prologo”, nel quale vengono presentati i protagonisti e la vicenda; una divisione in parti, ciascuna suddivisa in capitoli. Sicché, lèttone uno è come aver letto, dal punto di vista strutturale, tutti gli altri, sebbene la fervidissima fantasia della scrittrice provveda ad inventare sempre nuove situazioni narrative.
Notevole è lo spazio che, in essi, occupa la donna. E’ lei, per esempio, che sopporta il peso maggiore nella tutela dell’onore della famiglia. Con la complicità di altre donne (l’amica, la zia, la cameriera), però, le viene dato di violare le regole della morale borghese, purché stia attenta a giocare d’astuzia e a non farsi cogliere in fallo dall’opinione pubblica (che, nei romanzi, acquista rilevanza di “personaggio”).
Tutti i personaggi, anche quelli secondari o minimi nell’economia della narrazione, hanno nomi e cognomi; ma essi, protagonisti o comparse, mancano di spessore psicologico. Alla psicologia, la scrittrice sostituisce alterazioni continue delle “maschere”. Così i “buoni” si esprimono con “sorrisi deliziosi” e i “cattivi” con “ghigni beffardi”; così gli svenimenti e gli attacchi di bile (o di rabbia o di paura) che fanno impallidire non si contano, come non si contano gli improvvisi rossori e i “sussulti”, i “fremette”, i “proruppe vivamente”.
Non vanno infine trascurati – oltre all’insistito uso del “quasi”, che finisce per produrre, talora, effetti di involontaria comicità (“disse il giovane con voce quasi ferma”; “Roberto avvolgeva la sventurata con uno sguardo quasi feroce”; “gli sussurrò quasi all’orecchio”) – gli inserimenti di espressioni melodrammatiche del tipo: “Se voi verrete a mancare, Signora, io prenderò il vostro posto” (chi parla è un giovanotto che si rivolge ad una madre in punto di morte preoccupata per il destino della propria figliola sedicenne), le costruzioni di periodi nei quali la consecutio temporis diventa un’opinione (“Bisogna dire che Roberto avesse una gran forza d’animo”) e le godibili – da cinema muto – formule di chiusura del “prologo”: “ Guelfo parve colpito in pieno petto: barcollando, batté l’aria con le mani e, senza un genito, cadde sul pavimento. Quando rinvenne era pazzo”