Saro Contarino viaggiatore

Questo ricordo nasce in una mattina del 2010, durante un compito in classe di latino.
“ Hoc tibi soli putas accidisse..? Credi che a te solo capiti questo? E ti meravigli, come di un fatto strano, che viaggi così lunghi e luoghi così diversi non riescano a dissipare la tristezza e il peso dell’anima? È questa, l’anima, che devi cambiare, non i luoghi. Animum debes mutare, non caelum.” Le sentenze senechiane…
E non diceva Orazio la stessa cosa? Caelum non animum mutant qui trans mare currunt. Quasi la stessa cosa. Orazio è perentorio, non ammette eccezioni, Chio, Lebedo, Samo valgono quanto il più sperduto, e sconosciuto villaggio del Lazio, quanto Ulubre. Viaggiare è inutile, quel che conta è un animo equilibrato, aequus. Seneca almeno contemplava la possibilità del viaggio. Onus animi deponendum est: non ante tibi ullus placebit locus.
Questo Seneca mi pare facile. I ragazzi si lamenteranno, ma loro si lamentano sempre, non sanno quanto sia difficile trovare una versione per il compito… Quindi Seneca ammette il viaggio, basta scrollarsi di dosso il peso dell’anima… Certo il pensiero classico privilegia la quiete, la stabilità, dell’anima, ma anche del corpo. Quante condanne della navigazione! Non doveva la nave Argo attraversare le nere Simplegadi…
Saro non era così. Lui amava viaggiare, e per lui il viaggio era un viaggio dell’anima. Capace di sgombrare il peso interno, l’affanno quotidiano, fosse pure andare da Riposto a Torre, a vedere il mare.
Ed era un viaggio, il suo, da fare in compagnia, dalla passeggiata silenziosa e solidale sul lungomare, all’escursione più impegnativa, a qualche castello diruto posto sulla cima d’un monte, come quello di Calatabiano, o alla chiesa di S. Pietro e Paolo, con la fiumara da guadare, o al cimitero murato di Forza d’Agrò. E ancora Pantalica, Morgantina, quando trovammo il cancello chiuso e scavalcammo il reticolato. Chi l’avrebbe detto di Saro, così ligio alle regole.
E, ancora, le città d’arte, Siracusa, Ragusa Ibla, Modica, Scicli, Noto, gite d’un giorno, dove c’era sempre qualcosa che lui aveva visto, o di cui aveva notizia, che voleva che gli altri vedessero. E gli altri crescevano sempre. Alunni, amici, amici degli amici. La sua avidità di conoscenza, la sua curiositas, si applicava alle persone non meno che alle cose, era sempre pronto ad associare qualcuno nuovo alle sue gite. Ed era, il suo sapere, di professore di lettere competente d’arte, musica, geografia (qui era ferratissimo), botanica, astronomia e tante altre cose ancora che ci lasciavano stupiti, inscindibile dalla voglia di comunicare. Sempre e comunque. Come fa chi nasce educatore.
Era un viaggiatore inquieto, instancabile, con un che di febbrile. Finché c’era luce, c’era sempre qualcosa da vedere o rivedere: ” È qui vicino, il tempo c’è”. Giunti sul posto, davanti a un paesaggio o a un monumento, le due cose spesso erano associate, appena giù dalla macchina: “Che bellezza!” e poi immobile, in silenzio. Pago di averci mostrato la bellezza.

Questa era la sua pedagogia. Della visione, dell’epifania del bello. Anche in macchina la conversazione non toccava, se non di sfuggita, le ragioni del viaggio, che si giustificava da sé. Al ritorno gli piaceva cantare, dare così sfogo alla sua contentezza. Erano pezzi facili, popolari, cui ci univamo tutti. Canzoni napoletane, come O surdatu ‘nnamuratu, O sole mio, oppure altre come Bella ciao, o Vitti ‘na crozza, di un malinconico lirismo che tutti ci avvolgeva a conclusione della giornata.
Era la sua famiglia allargata, che lui proteggeva, guidava, consigliava. “Chiediamo a Saro”. E lui conosceva sempre qualcuno, un alunno o un collega che poteva aiutarti. Quando, ed era il più delle volte, non era lui che interveniva in prima persona. Il piano di studi all’Università, la provincia dove fare domanda d’insegnamento, la tesi di laurea, le lezioni private, tutto transitava dal salotto di via Concordia 50. Si entrava per risolvere un problema pratico e si usciva che gli avevamo affidato la cura della nostra anima.
Anche i viaggi in auto per la penisola altro non erano che linee di collegamento tra punti diversi, ognuno facente capo ad un alunno. Che, con la massima naturalezza, accoglieva lui e i nuovi amici che portava con sé. E, una mostra qua una mostra là, ora inseguendo le suggestioni di un film ora di un libro, spesso e volentieri cedendo al fascino evocativo di certi nomi, si componeva la nostra mappa dei desideri.
La Francia, la Tunisia, questi i nostri viaggi all’estero. La voluttà con cui pronunciava il francese, assaporandolo lentamente, come se si trasferisse in un altro mondo, un’altra patria. Anche qui sembrava esserci stato da sempre. Veselais, Giverny, Honfleur, Barbizon, ognuno di questi luoghi era magico, popolato dei fantasmi d’un tempo. Le vere presenze.
Come dimenticare il primo viaggio con lui. Era stato nominato commissario agli esami di maturità a Roma e mi aveva invitato ad accompagnarlo. Accettai con entusiasmo: Da alcuni mesi, da quando era rientrato in Sicilia dal soggiorno spoletino, eravamo diventati amici ed avevamo già fatto molte gite. Ma ora si trattava di un viaggio vero. Ero appena laureato e non conoscevo quasi nulla, tranne la paterna Calabria, di quel che c’era oltre lo Stretto. Partimmo con la sua 500, in un tardo pomeriggio. Dormimmo in macchina, dalle parti di Amantea. All’alba eravamo a Ravello, un posto che non avevo mai sentito nominare, e dove son tornato in seguito più d’una volta. Ero stanco, morto di sonno, infreddolito. Mi rifiutai di scendere. Ricordo la sua delusione.
Chissà perché, oggi, di quel viaggio, che pure fu molto importante per me, quel che si dice un viaggio di formazione, ricordo quell’episodio. La volta di Ravello. Ripercorro con la mente la deviazione che egli fece, le curve della strada, i tornanti che portano in cima al monte, la fatica che dovette costargli, in quelle condizioni, arrivare fin lassù, per farmi il dono che rifiutai. Così Ravello, nella gratitudine postuma per l’occasione che non colsi, mi ricorda il Saro viaggiatore. Ma non solo.
Molto, molto di più.