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Nuovo quotidiano d'opinione e cultura
Il tempo: la ricchezza per l’umanità
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Il libro di Salvatore Borzì “Viaggio al di là del tempo. Grecia, Memoria, Bellezza”

Salvatore Borzì, classicista e scrittore, insegna Latino e Greco al liceo classico Gulli e Pennisi di Acireale. Dopo la laurea in Storia Antica e il Dottorato di ricerca in Filologia greca e latina presso l’Università di Catania, si è dedicato inizialmente a studi di Patristica(Eusebio di Cesarea) e, successivamente, alla poesia moderna, curando l’opera di Silvestro Neri, un autore di cui parleremo stasera. S’è occupato anche, tra altri lavori di saggistica, di Leopardi, con il suo “ Leopardi e i volti di Dio”(Bonanno 2015). Recentemente ha pubblicato due romanzi: “L’alunno del tempo. La straordinaria vita del giudice Filocleone”(Algra 2018) e “ Il colore del buio”(Algra 2023).

E’, come suggerisce il titolo, una riflessione sul Tempo, questo libro, una riflessione che si muove lungo due percorsi, uno a ritroso, a ritrovare nella Grecia del mito, cioè del racconto, quei valori di Memoria e Bellezza che si oppongono all’azione cancellatrice del Tempo e che, da allora fino ad oggi, costituiscono le tracce lungo cui s’è mossa un’umanità in perenne ricerca di un senso al proprio vivere; valori presenti nel contemporaneo, e questo è il secondo percorso, nell’opera di due autori dei nostri giorni, il poeta calabrese, Silvestro Neri, e il cantautore- scrittore Roberto Vecchioni, che ritrovano entrambi nella Grecità le fonti della loro ispirazione. E’ una narrazione di narrazioni, dagli antichi miti di Edipo, di Prometeo, di Orfeo e Euridice, a quelli moderni di una letteratura che non cessa di interrogare le proprie origini. Al centro di tutto è la Parola, il “ monumento più duraturo del bronzo” di Orazio ed è ad essa, la Parola dei Greci, che viene dedicata la parte conclusiva, poche pagine ma un atto d’amore per una lingua cui tanto deve la nostra cultura.

Ma torniamo al titolo, “Al di là del tempo” e interroghiamolo. C’è in esergo una citazione da Nietzsche( da “ Sull’utilità e il danno della storia per la vita”) che fornisce un primo spunto di riflessione:

“ Non saprei – dice Nietzsche- che senso avrebbe mai la filologia classica nel nostro tempo, se non quello di agire in esso in modo inattuale – ossia contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo.”

Ora se a “filologia classica” sostituiamo la parola “letteratura”, vedremo che la citazione s’attaglia benissimo al nostro discorso. Cosa di più “inattuale” infatti della grande letteratura? Che spesso non viene riconosciuta dai contemporanei e deve attendere il suo tempo per agire sulle generazioni future. “Al di là del tempo” quindi, in senso nietzscheano, varrebbe “ contro il proprio tempo”, l’inattualità come garanzia di vita futura.

Ma a questa prima suggestione un’altra s’affianca, e prevale, quella della poesia che foscolianamente “vince di mille secoli il silenzio”. Avvalorata dalle parole introduttive dello stesso autore, quando racconta dell’origine del libro concepito nel tempo recente della sospensione delle lezioni in presenza :

“ A un uomo di scuola quale io sono ormai da molti anni, era intollerabile la mancanza del dialogo coi ragazzi, i miei alunni, che riuscivo a vedere solo attraverso il freddo schermo di un computer…Unica arma che avevo per combattere bruttezza era quella della Bellezza che ho appreso dai Greci. Solo balsamo dell’anima. E sono venute fuori queste pagine, in cui ho cercato di intraprendere un viaggio che è insieme nel tempo e al di là del tempo. Perché per Bellezza il tempo non esiste. Essa è sempre e sempre sarà perché essa sola è capace di vincerlo il tempo con la forza del suo messaggio che sfida i secoli, valido sempre, non solo in tempo di pandemia.”

Un’altra citazione, sempre in esergo, ci soccorre a intendere più approfonditamente il senso del nostro titolo, quella che apre la prima parte del libro, dedicata alle grandi narrazioni dei miti greci. E’ di Senofane,  poeta e filosofo, vissuto nella metà del VI sec. a. C., maestro di Parmenide ad Elea.

“ Gli dei sin dall’inizio – scrive Senofane – non svelarono tutto ai mortali, / ma essi, cercando, nel tempo( chronoi) trovano ciò che è meglio.”(fr. 18 D.- K.)

“ Nel tempo”. Cioè, col tempo, a indicare una faticosa ricerca individuale. Ma se dall’individuo, racchiuso nel suo tempo, ci volgiamo all’indietro, alla somma delle infinite ricerche degli individui che ci hanno preceduto, scopriremo un tempo enormemente dilatato, “ ove per poco il ‘l cor non si spaura”(Leopardi), il passato che non passa, che si apre dinanzi a noi. “ Un’immortalità all’indietro”, come ebbe a definire la lettura Umberto Eco:

“ Chi non legge – mi piace ricordare questa sua celebre frase – a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito…perché la lettura è una immortalità all’indietro.” 

Ma è tempo di entrare nel cuore del libro, dove trova libero spazio la vena creativa dell’autore, il suo gusto del racconto, il suo “ cunto di li cunti”. C’è una cornice narrativa intanto, che descrive la fondazione di Crotone e l’arrivo nella colonia achea di Pitagora, il filosofo di Samo, vissuto nel VI sec. a. C.. Pitagora appartiene alla schiera dei filosofi comunemente indicati col nome di presocratici, vissuti tra VI e V sec., come  Senofane di Colofone, Parmenide di Elea, Empedocle di Agrigento: “ maestri di verità”, secondo la definizione di Marcel Detienne, poeti- filosofi (affidarono spesso ai versi le loro dottrine), circondati da un’aura di venerazione presso le comunità in cui si trovarono ad operare, esercitarono su di esse un’importante influenza politica. E’ in questa veste che l’autore rappresenta Pitagora, nell’atto di parlare ai Crotoniati, divisi da rivalità interne e dimentichi dei valori civici. Egli racconta innanzitutto di Alceo, il poeta di Lesbo, contemporaneo di Saffo, strenuo difensore della sua polis. Qui la narrazione si avvale delle conoscenze testuali, acquisite dal nostro nei tanti anni d’insegnamento, che, se per chi ha frequentato il liceo son fonte di piacevoli ricordi, per altri possono costituire un suggestivo approccio a questa parte più schiettamente politica della lirica greca arcaica. 

Pitagora racconta poi di Edipo, di Prometeo, di Orfeo ed Euridice. “ Non casuale la scelta. – cito – Li riteneva i più adatti a far capire che nella vita ogni avvenimento non è solo e sempre frutto del caso o del destino, ma spesso segno di ciò che la vita vuole da me perché io sia davvero felice.” E quindi Edipo, di cui si ripercorrono le vicende, dall’abbandono ancora neonato sul monte Citerone alla prodigiosa scomparsa nel demo di Colono. E’ l’argomento delle due tragedie sofoclee, l’ Edipo Re e l’Edipo a Colono, riassunte in una prospettiva che vede nell’ Amore la cifra complessiva di un personaggio così centrale nella storia della cultura occidentale.

“ Attraverso il dolore – cito – Edipo ha capito quanto è importante amare, che siamo al mondo solo per amare, essere luce per sé e per gli altri.”

Se andiamo a rivedere la chiusa del Coloneo, troviamo enunciata questa legge dell’Amore:

“ Figlie mie – Edipo si rivolge ad Antigone e Ismene – in questo giorno vostro padre non è più. Scompare ogni cosa di me, né più vi toccherà la pena di nutrirmi: ingrata, certo, figlie mie, ma una sola parola – affetto ( to philein) – cancella ogni pena. Da nessuno avete ricevuto un affetto più intenso che da quest’uomo, senza il quale dovrete ormai trascorrere il resto della vita.” (vv. 1611- 1619.Tr. Franco Ferrari)

Anche Prometeo ha obbedito alla legge dell’Amore, l’amore per gli uomini, cui ha donato il fuoco, andando contro il volere di Zeus, e per questo è stato punito dal sovrano degli dei  che l’ha fatto incatenare a una rupe del Caucaso. E’ l’argomento del Prometeo incatenato di Eschilo, contaminato con il racconto esiodeo della Teogonia. Ma, a differenza di Edipo, Prometeo, non riesce a sublimare il suo dolore nell’amore, dà libero sfogo all’odio per l’autore delle sue sofferenze, finendo per essere inghiottito nelle viscere della terra. Una sconfitta che, a fronte della santificazione di Edipo, conferma l’assunto che sta alla base del nostro libro:

 “ L’odio – cito –  è destinato sempre alla sconfitta, qualunque ne sia il motivo, nell’amore invece non si perde mai, neppure quando per amore si soffre perché si perde chi si si ama.”

Come dimostra la storia di Orfeo e Euridice. La vicenda, notissima, segue la falsariga del racconto virgiliano, collocato a conclusione  delle Georgiche, e di quello di Ovidio, nel decimo libro delle Metamorfosi. Qui è l’amore per la sposa perduta che in Orfeo si fa canto, canto di memoria che trasforma l’assenza in presenza, che sopravvive, eterna, alla fine stessa del cantore, sbranato dalle donne dei Ciconi:

“ Anche allora – torniamo a Virgilio – mentre l’Ebro eagrio rotolava fra i suoi gorghi la testa strappata dal collo marmoreo, la sua voce da sola con la lingua gelida Euridice, ah! misera Euridice invocava, mentre la vita sfuggiva, Euridice ripetevano le rive lungo tutta la corrente.”

Da Orfeo a Silvestro Neri e a Roberto Vecchioni, attraverso quel “ ponte sul fiume del tempo” gettato dal nostro autore a indicare la derivazione dal  mitico citaredo dei due poeti nostri contemporanei: sono “ la sacralità della parola che salva”, e  l’importanza della memoria,  i fattori decisivi del messaggio orfico che vengono recuperati nella ricerca di una vita autentica, di una vera felicità.

Silvestro Neri, nato a Roma nel 1951, medico e omeopata, fa rivivere nei suoi versi l’eco dell’antica civiltà in cui affondano le sue radici, la Calabria grecanica dell’Amendolea, la fiumara che dall’Aspromonte si getta nell’Ionio nei pressi di Bova Marina:

“ Lembi strappati alla fiumara, gli orti, vigne spontanee e foglie di limone, orme paterne, contrafforti, misure e passi risuonanti dolore, onore, orgoglio, umanità calore. Era la Grecia dell’infanzia, il segno della mia provenienza, la caduta degli dei dal nostro Olimpo…Lì vidi l’invisibile e mi parlò fonando un alfabeto che si incarnava con la mia emozione…Lì ritrovai le radici della mia poesia.”

 Così, nella premessa ad “Amendolea, fiaba greco-calabra, Neri ricorda il suo ritorno in Calabria dopo molti anni d’assenza. Proprio la Calabria ci ha tramandato alcune preziose testimonianze della civiltà orfica, quelle laminette auree che accompagnavano la sepoltura dei defunti, ritrovate a Ipponio(Vibo Valentia), Thuri(Sibari), Petelia(Strongoli, Crotone). Il riscontro con la poesia di Neri è evidente:

Dice il poeta, tornato alla terra dei padri:

“ Trema la terra e assesta la mia culla/ alla fonte, accanto al bianco cipresso.” (“Grecia. Poesia in due atti di Silvestro Neri”, a c. di Salvatore Borzì, Lalli editore, Siena, 2007)

Recita la laminetta di Ipponio:

“ Di Mnemosyne è questo sepolcro. Quando ti toccherà di morire/ andrai alle case ben costrutte di Ade: c’è alla destra una fonte,/e accanto a essa un bianco cipresso diritto;/là scendendo si raffreddano le anime dei morti./a questa fonte non andare neppure troppo vicino;/ ma di fronte troverai fredda acqua che scorre/dalla palude di Mnemosyne, e sopra stanno i custodi,/che ti chiederanno nel loro denso cuore/cosa vai cercando nelle tenebre di Ade rovinoso./Di’ loro: sono figlio della Greve e di Cielo stellante,/sono riarso di sete e muoio; ma date, subito,/fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosyne./E davvero ti mostreranno benevolenza per volere del re di sottoterra ;/ e davvero ti lasceranno bere dalla palude di Mnemosyne; /e infine farai molta strada, per la sacra via che percorrono/gloriosi anche gli altri iniziati e posseduti da Dioniso.” (Colli, La sapienza greca, I, Adelphi, 1977)

“ Se si beve dalla corrente dell’oblio( la fonte di destra) – scrive Giorgio Colli – si dimentica tutto e si rinasce a una nuova vita, cioè la sete è soltanto ingannata e l’arsura non tarda a ripresentarsi in una nuova individuazione. Ma se si beve dalla fonte di Mnemosyne la memoria fa recuperare la conoscenza del passato e dell’immutabile, e l’uomo riconosce la sua natura divina”, sottraendosi in questo modo all’eterno ciclo di nascite e rinascite. “ Un’anteriore vita divina, immutabile, sottratta al tempo” (Pugliese Carratelli, Scritti sul mondo antico, Napoli,1976).

“ Non c’è più tempo, e il tempo non conosco” (Grecia, cit.), afferma il  poeta moderno che ha bevuto nel lago del ricordo:

“ Come cieco per grazia alza lo sguardo,/mi sollevai dal corpo che dormiva/lasciando a terra il secolare inganno,/quindi leggero abbandonai la riva/poeta tra coloro che più sanno/e sempre in vita provano il morire,/anche l’andare da uomo che sogna/per quelle strade già dure a seguire,/io d’esser nudo mai ebbi vergogna.”(Opera Nuova, Raffaelli editore, Rimini, 2015)

Da questo punto di vista, dell’orfismo ritrovato, anche l’opera di Neri può  essere definita un  “ Viaggio al di là del tempo”, fornendo un’ulteriore accezione al titolo su  cui ci eravamo interrogati all’inizio: di un percorso cioè che, sulla scorta della Memoria, sia individuale che storica, vuole liberarsi dalle pastoie e dalle illusorietà del mondo sensibile e finito per attingere, sulla scorta dell’antica sapienza greca, alla vertigine dell’infinito(Leopardi), alla stabile certezza di sé.

Il tema del tempo – “Viaggi del tempo immobile”(1996) s’intitola una raccolta di suoi racconti – è al centro della riflessione anche di Roberto Vecchioni, di cui vengono passati in rassegna non tanto i testi poetici, delle canzoni per intenderci, quanto le opere in prosa , i romanzi e i racconti. “ Esistono per Vecchioni – cito – due tipologie di tempo: quello orizzontale, ossia la routine quotidiana da cui, nostro malgrado, siamo sommersi e non poche volte travolti, e quello verticale, il tempo vero, quello che abbiamo dentro perché lo abbiamo già vissuto e che ci ha reso quello che noi oggi effettivamente siamo… E’ il tempo verticale che ci fa uomini, a patto che abbiamo la forza e il coraggio di guardarci, di leggerci veramente dentro e prendere consapevolezza di quanta tenebra e di quanta luce siamo fatti, la luce che siamo e che spesso dimentichiamo di essere perché permettiamo al tempo orizzontale di risucchiarcela fin quasi a spegnercela del tutto.”

Strumento indispensabile per conoscersi e vivere il tempo verticale è la letteratura, tutto quanto è stato scritto dall’uomo, “ un unico – cito – interminato, mai finito racconto sull’uomo stesso, delle sue passioni, dei suoi dolori, dei suoi sogni, dei suoi desideri(“ Il libraio di Selinunte”, 2004).

 Vecchioni , si sa, è stato a lungo docente di latino e greco e questa sua esperienza è alla base delle sue riflessioni sulla sua professione, il cui scopo – cito – non è insegnare la realtà come unica verità, ma soprattutto l’altra, la seconda verità, quella non immediatamente visibile, intuibile, ma alla quale è comunque possibile giungere per vie parallele, alternative, tutte egualmente valide come quella principale, ritenuta, quasi sempre a torto, l’unica possibile, nella quale si preferisce restare sempre fermi perché è più comodo ritenerla certa, per paura di perderci, disperderci.”   

Come i Crotoniati cui si rivolgeva Pitagora, anche l’uomo contemporaneo per Vecchioni vive una profonda crisi di valori: stesso conformismo delle idee, amore del quieto vivere, incapacità di vedere oltre il proprio naso. Di qui il suo ricorso, contro il dilagare degli stereotipi e dei dogmi,  alla lezione socratica, a quel “ sapere di non sapere” che è la vera premessa di ogni autentica ricerca; e, soprattutto, ai paradigmi della classicità, dagli antichi eroi ed eroine, Odisseo, Cassandra, Aiace, Elena, Andromaca, ai poeti, Saffo, Catullo, ai miti, ancora una volta quello di Orfeo e Euridice. Anche per Vecchioni la Luce e la Bellezza salvano il mondo, e lo salvano attraverso il miracolo della Parola.

E qui il cerchio, la summa del nostro libro, si chiude. Eravamo partiti da Pitagora e dai suoi mythoi, siamo passati alla poesia orfica di Silvestro Neri e ai messaggi in bottiglia di Vecchioni, per ritrovare un unico discorso. Nato in un tempo buio, quello della pandemia e della reclusione individuale, questo libro si propone di lanciare un messaggio di salvezza e di speranza, che riposa sulla fede nella Parola che vince il Tempo e sulla lezione di coloro che ne sono i propagatori, i poeti, antichi e moderni.

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Paolo Daniele è stato docente di Latino e Greco al Liceo “ Michele Amari” di Giarre. A questa scuola, dove ha studiato e insegnato per quasi tutta la sua carriera, ha dedicato parecchie delle sue ricerche, soprattutto profili di docenti e riflessioni intorno alla didattica delle lingue classiche, confluite negli annuari del liceo da lui curati. In quest’ambito è nato anche il suo interesse per il poeta Santo Calì, che all’Amari ha insegnato negli anni Sessanta. A Calì ha dedicato studi sia sulla sua attività nella scuola(”Santo Calì, il professore”, un’antologia di scritti composta insieme al preside Girolamo Barletta) sia sui rapporti della sua poesia con la classicità(“Santo Calì e il mondo classico”, in Atti del Convegno Nazionale di Studi, Linguaglossa, 16-19 dicembre 1982).

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