Svjatlana Aleksievič: la guerra non ha un volto di donna

«In guerra gli uomini subiscono una trasformazione, sono gli stessi e al tempo stesso non lo sono più».
La “Giornata della memoria”, celebrata ogni anno il 27 gennaio, è stata istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per commemorare tutte le vittime della Shoah ed è proprio in questi giorni di commemorazione che le prime parole che ho cercato sono quelle di Svetlana Aleksievič. Nel suo libro, La guerra non ha un volto di donna, racconta la Seconda guerra mondiale attraverso una pluralità di voci che testimoniano l’esperienza vissuta nei territori dell’Unione Sovietica, facendo leva sulle percezioni dei sensi, della vista, dell’udito. L’originalità di questo testo, che le è valso il Nobel per la letteratura nel 2015, non si limita alla forma polifonica della sua scrittura. A narrare, infatti, sono solo «voci» di donne. Mai una grande moltitudine di donne aveva lottato in una guerra drammaticamente caratterizzante la condizione umana, totale, senza paragoni e limiti, come fu quella del Secondo confitto mondiale. Quella della Aleksievič è, quindi, «tutta un’altra guerra»: «non c’è gente che ammazza eroicamente», «non ci sono eroi e strabilianti imprese, ma semplicemente persone reali impegnate nella più disumana delle occupazioni dell’uomo». La narrazione, tutta al femminile, ci mostra sentimenti e sensi, il colore, l’odore e il sapore dei dettagli. Ci presenta uno sguardo diverso su un mondo tradizionalmente conosciuto con occhi maschili, trasmettendo la costante partecipazione alla sofferenza, soprattutto a quella delle vittime più vulnerabili: i bambini e le donne-madri, destinate a portare con sé il dolore della perdita dei figli. Dolore che si estende al di là degli esseri umani: «li avevo visti dare alle fiamme un villaggio… […] Ricordo come la gente gridava… Gradivano le mucche… Gridavano le galline… Sembrava che tutti gridassero con voce umana. Tutte le creature viventi. Gridavano mentre bruciavano vive», così ci racconta una delle voci raccolte dalla Aleksievič.
La scrittrice ascolta, registra, cattura le infinite voci udite – una «donna-orecchio» si autodefinisce – senza ridurle ad una massa anonima, ma distinguendole l’una dall’altra; le nomina e definisce, facendo oggetto della sua letteratura la storia ignota, i racconti di tante piccole vite. La storia di partecipanti e testimoni non notati da nessuno. La narrazione di una generazione di donne che avverte «la difficoltà di raccontare la guerra, di farne una esperienza comunicabile agli altri» e allo stesso tempo l’urgenza di dover trasmettere la memoria di ciò che è stato e che rischia di essere sepolto nell’oblio.
C’è chi dice che forse quest’opera non è letteratura e molte sono state le critiche: «that what I write isn’t literature, it’s a document».
Ma non è il caso di riprendere la domanda provocatoriamente rilanciata sul podio del Nobel dalla scrittrice stessa?
«Cosa è oggi letteratura?»