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Antropologia criminale

Domenica 9 gennaio 2021 era andato in onda su LA7 uno speciale del programma “Non è l’arena” condotto da Massimo Giletti, nel quale è stato trasmesso un docufilm di Mosco Levi Boucault intitolato “Corleone, il potere e il sangue”.

La novità assoluta rappresentata da questo docufilm è stata quella di evitare di narrare le vicende legate al mondo della criminalità di stampo mafioso con la tipica narrazione dei fatti oramai noti ai più, con un vero e proprio cambio di prospettiva. Lo speciale infatti si è basato sulla ricostruzione delle vicende di una delle pagine più oscure della nostra Repubblica, dal punto di vista di chi quei delitti li ha commessi e ne è diventato protagonista, anche nelle vicende processuali, diventando testimone di giustizia. Per la prima volta sentiamo parlare Giovanni Brusca, colui il quale ha mosso la levetta del radiocomando collegato all’esplosivo che ha fatto saltare l’autostrada che collegava Capaci a Palermo di fronte ad Isola Delle Femmine, che ha posto fine alla vita del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Montinaro, Schifano e Dicillo e lasciando feriti gli agenti Costanza, Capuzza, Cervello e Corbo. I sopravvissuti vivranno dapprima le ferite del fisico e per sempre quelle dell’anima e troppo spesso ciò non viene ricordato a dovere.

Ciò che emerge dalle interviste ai protagonisti in negativo di queste vicende, tra questi ricordo Gaspare Mutolo, Giuseppe Marchese e Gaetano Grado, è oltre alla crudeltà delle esecuzioni, documentate dalle molte immagini che scorrono durante i loro racconti, anche un aspetto antropologico sul quale è necessario soffermarsi. Molto spesso la scelta di entrare a far parte di un’organizzazione criminale è dettata dal fatto che il soggetto che decide di compiere questo passo cerca, di emergere da un punto di vista sociale e, non riuscendovi, decide di intraprendere il cammino della violenza e della prevaricazione sociale: non mi accetti, mi faccio accettare.

L’inquietudine trasmessa dai racconti dei collaboratori di giustizia con dovizia di particolari, fa apparire quello che si apprestavano a compiere come un vero e proprio lavoro, confermando la bipartizione classica tra Stato ed Anti-Stato, laddove nel primo si lavora per il bene della società e nel secondo per preservare il potere dell’organizzazione criminale di cui si fa parte cercando di aumentare lo stesso. La costante è la contrapposizione tra il bene degli uomini che sono caduti nel cercare di contrastare il fenomeno mafioso, nell’adempimento del loro dovere professionale, ed il male rappresentato dagli assassini dei clan e dal deus ex machina di tutto, Totò Riina. Descritto da tutti come un “uomo che ti plasmava, ti irretiva e ti conduceva nel suo progetto di terrore senza possibilità di ripensamenti se non tramite la morte.”

Giovanni Falcone, in una vecchia intervista disse “La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”. Indubbiamente è vero, tutti i fenomeni legati all’uomo sono connotati da questo susseguirsi di tappe, c’è solo da capire quando questa fine arriverà, visto che oramai le organizzazioni criminali con il loro camaleontismo sono entrate appieno a far parte della società civile.

Se la si pensa così l’impresa sembra molto ardua; se la si vede dalla prospettiva di un vero e proprio cambio culturale, allora probabilmente la fiammella della speranza si potrà rinvigorire e potrà portarci a respirare un aria finalmente migliore ,direi che questo Paese lo merita.

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Alessandro Sorace classe 1988, nato a Catania. Giurista, giornalista pubblicista, appassionato di arte, storia ed amante della cultura, del gusto e del buon vivere. Collabora da gennaio 2022 col quotidiano online "Clessidra 2021".
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