“Tu che pensi? “.Il metodo socratico di Santo Calì

“ Tu che ne pensi?”. E’ questa la domanda che più associo al ricordo di Santo Calì, professore prima, educatore sempre.
Io, linguaglossese, conobbi Santo Calì in quarta ginnasio sez B: un professore piccoletto, giudicato da noi curioso e provocatore.
Più che un professore di liceo sembrava un professore di anatomia che invece di dissezionare direttamente, pretendeva che lo facessimo noi per lui, per accorgerci, poi, che a lui non interessavano i risultati scientifici dell’operazione, ma le nostre inevitabili domande, il nostro disgusto nel vedere lo sporco che c’era allora e che c’era stato prima e quanto alla fine fosse aumentata la nostra capacità di analisi.”
“Un provocatore”…nel ricordo di Francesco Barone, c’è già l’immagine socratica del grande indagatore, in cui il Tu che ne pensi? si sostituisce al celebre Tì estì? dell’Ateniese. Socrate, del resto, è ricordato espressamente dal Nostro nella sua risposta polemica al preside che lo rimproverava di non adoperare il registro:
“Siamo tutti d’accordo nel riconoscere in Socrate un grande maestro. Ma Socrate non passeggiava per le vie di Atene tenendo sotto l’ascella un registro di classe o personale.”
E, immediatamente prima, delineando il piano personale di lavoro che gli era stato richiesto, ribadiva il suo credo didattico, che egli assimilava al metodo dell’inchiesta socratica:
“Scendere dalla cattedra e cercare, criticamente, insieme agli alunni, non primus inter pares, ma uno di loro, la <verità>. Il che comporta l’instaurazione di un colloquio quotidiano con l’eliminazione dell’interrogazione-inquisizione, e perciò del voto che cristallizza gli umori del momento.”

E’ un Socrate ideale, naturalmente, che richiama l’implacabile demistificatore della falsa sapienza dei sofisti, un Socrate assunto a modello nella lotta, da Santo ingaggiata, nei confronti di un sapere cattedratico ed autoreferenziale, del tutto scollegato dal proprio tempo:
“ Noi docenti-scrive in Un tulipano rosso- ci prestiamo volentieri alla causa, scoraggiando i discenti al gioco democratico. Li scoraggiamo e li minacciamo. Li ricattiamo con l’arma insidiosa del voto-la penna in tal caso ferisce ancora una volta più della spada-temiamo il colloquio perché non vogliamo essere destituiti dal trono della nostra incorruttibile saggezza, non vogliamo scoprire il fianco alle nostre insondabili lacune culturali, alla nostra spreparazione o ignoranza su un qualsivoglia tema che abbia riferimento ai travagli della società in cui i giovani vivono e si dibattono.”
E, poco più oltre:
“La scuola italiana, allo stato attuale dei fatti,- si è detto, e noi condividiamo in pieno l’idea- rappresenta lo strumento, sino ad oggi unico e insostituibile, (l’epoca dei Socrati e dei Cristi che insegnavano sulle pubbliche piazze, e con i risultati che conosciamo, è trascorsa ormai da millenni; ma non è detto che non possa ritornare!), il quale trasmette da una generazione all’altra un vasto, caotico patrimonio di cultura sempre più degenerativa, mistificata e mistificante, a tutto vantaggio di quei gruppi di potere economico e politico che hanno regolato, lungo il corso dei secoli la storia dei popoli e le registrazioni che di essa sono state fatte. Menandovi il buono e il cattivo tempo.”
Socrate(ancora una volta) e Cristo, associati nei modi(la pubblica piazza non conosce cattedre) e nei contenuti(la palingenesi sociale):
“ C’è chi pretende a memoria, dal primo all’ultimo, tutti i comparativi e superlativi di agathòs. Ma nessuno di noi che si prenda la briga di rilevare come gli agathòi, i buoni della civiltà greca rappresentino il corrispettivo degli optimates della civiltà latina, o degli honestiores: come cioè presso gli Ateniesi e presso i Romani il concetto di buono coincida con l’altro, di potente, di ricco, di governante; come tale concetto rimanga intatto, ancora oggi, nel lessico dialettale del popolo siciliano, che chiama gente buona quella ricca. Per il proletariato nessuna possibilità di riscatto dalla sua miseria, dalla sua ignoranza, dalle sue turpitudini! ”
Come Socrate anche Calì disorienta all’inizio il suo interlocutore: il fenomeno, registrato nella testimonianza di Barone, ritorna in quella, riferita agli stessi anni, di Liana Torrisi:
“ Ancora oggi ricordo l’espressione del viso del Professore quando entrò per la prima volta in classe. Con passo lento e solenne entrò guardandosi intorno, curioso di conoscere i nostri volti e di coglierne l’espressione; aveva in mano la sigaretta con il beccuccio, e le sue labbra abbozzavano un sorriso leggermente ironico. Lui aveva coscienza più di noi dell’importanza di quel nostro primo incontro. Subito dopo iniziò a parlare, chiedendoci la motivazione per cui ciascuno di noi aveva scelto il liceo classico. Le nostre risposte furono le più varie e non lo soddisfecero: ci mise in crisi fin dal primo giorno. Da quel momento cercò di instaurare in classe un clima di dialogo. Voleva che tutti noi partecipassimo alle discussioni.”
Finiscono qui le analogie col Socrate platonico. Se questi, secondo le regole della contesa eristica- che, nel Protagora, è paragonata ad un incontro di pugilato- dopo lo sbandamento provocato nell’interlocutore-avversario continuava sino alla completa demolizione delle sue tesi, Calì ricompone la crisi, costruendo, a partire da essa, un rapporto di fiducia e di cooperazione: “ un clima di dialogo”, appunto.

Continua Liana Torrisi:
“ La fatica intellettuale maggiore, per me, in quei due anni di ginnasio, più che l’apprendimento del latino e del greco, fu la costante<mediazione> che l’insegnamento di Calì mi costringeva a compiere tra il mio vissuto e le nuove problematiche che egli poneva alla mia attenzione. Nell’arco di pochi mesi io passavo da un collegio salesiano alle lezioni di Santo Calì, ed il salto non era indifferente…all’inizio rifiutai pregiudizialmente, tutto ciò che Calì ci insegnava; poi attraverso il dialogo e la riflessione cominciai a recepire ed a filtrare i suoi stimoli culturali, e cercai di rimodellare una mia personale identità.”
“ Il Sessantotto- scrive Pasquale Licciardello- creò il clima propizio a questa vocazione <socratica> e attivistica, un po’ tolstoiana del Calì pedagogo; ma Calì non aveva aspettato quel clima e quell’esaltazione collettiva per scoprire ed attuare la vocazione attivistica e democraticamente innovativa(<rivoluzionaria>) che contrassegnò precocemente la sua operosità didattico-pedagogica.”
Le testimonianze in tal senso non mancano. E’ un viaggio a ritroso, che dall’ultimo Calì, che ci ha consegnato la sua immagine definitiva di contestatore irriducibile del sistema scolastico vigente, si dipana, andando indietro nel tempo, attraverso tre fasi: il ritorno al liceo nel ’64, come insegnante al ginnasio; il decennio(’54-’64) alla scuola media, tra Riposto, Giarre, Catania, Castiglione e Linguaglossa; infine gli anni dell’insegnamento liceale all’Amari, dal ’49 al ’54.
Maria Pia Russo fu sua alunna dal ’64 al ‘66:
“ Mi ricordo che ci diceva sempre di pensare con la nostra testa e restava deluso se non riuscivi a creare un rapporto dialettico con lui, ma a 14-15 anni è forte il bisogno di identificazione e addio dialettica! Ad una ragazza che aveva fortemente subito il suo ascendente egli, cercando di non umiliarla, disse che spesso noi giovani scambiavamo l’ideale con chi ci spingeva verso l’ideale ed era per questo che non riuscivamo a separarci senza soffrirne.”
Il Calì tornato all’Amari, è già fortemente critico, nei confronti dell’insegnamento tradizionale:
“ Qui il greco si studia come la più astratta e fredda delle discipline, ci si pasce giornalmente di spiriti, di apofonie, di crasi, di metatesi, di aspirazioni, di accusativi analogici o di aoristi asigmatici, col risultato sconsolante che i giovani i lirici greci preferiscono leggerseli solo nella traduzione di Quasimodo, ma odiano Sofocle o Euripide o Eschilo, perché costretti a tradurne una tragedia”( da Giacinti, p.35).
Calì professore di Lettere alla scuola media è così ricordato da Giuseppe D’Urso, suo alunno alla “ Galilei ” di Riposto nell’ anno ‘55 –‘56:
“ Calì significava per gli allievi letteratura, poesia, arte, impegno civile; ma anche svago e ricreazione. Amava i giochi di parole, soprattutto gli anagrammi, e su questo terreno si compiaceva di misurarsi con gli allievi. Usava fotografare la classe all’interno dell’aula nel corso delle consuete attività. E distribuiva poi le foto. Con gli allievi, nonostante la loro giovane età, discuteva a lungo e amabilmente degli argomenti più disparati in un clima di cordialità serena e rassicurante. Con l’intera classe nel corso dell’intero anno scolastico riuscì a stabilire un proficuo, intenso e solido rapporto culturale, potenziando capacità di giudizio e di riflessione dei singoli allievi.”
E veniamo al Calì delle origini, il professore d’italiano e latino, che aveva lasciato un ricordo così diverso in chi, come Niccolò Mineo, l’aveva avuto come docente prima e collega poi:
“ In cattedra-scrive Mineo- parlava solo di scrittori e critici ed il Croce delle sue lezioni era quello dell’estetica e della distinzione della poesia dalla non poesia…In quegli anni il vero Calì era il professore in cattedra…Si intuiva anche la sua disponibilità umana, ma la maschera ufficiale era il distacco e la rigidezza…Il sentimento che si provava era il rispetto non tanto per la funzione, ma per la qualità…Un quindicennio dopo fummo colleghi nello stesso liceo “Amari” di Giarre. Stesso schieramento politico, ma diversa idea della scuola. Amici certo, ma anche estranei. Non voglio ricordare però il tempo dell’incomprensione, anche perché non so ancora chi avesse capito meglio.”
Le testimonianze su questo periodo sostanzialmente convergono, sul “silenzio totale, l’immobilità assoluta” degli studenti durante la spiegazione, sulla “passione e il gusto del docente, la parola fluida accompagnata dal movimento delle mani”- ricordate da Anna Castiglione.
“ Ma certo il professore non spiega sempre, almeno… non dovrebbe- è un’altra voce che parla- ogni tanto interroga. Lascia parlare l’alunno, accetta molte idee che questi espone, poi, ad un tratto, si stanca di stare a sentire sempre le solite cose e, prendendo lo spunto da ciò che lo scolaro ha detto si…mette a viaggiare nel mondo dei vari problemi dello spirito moderno. Fra alunni e professori scompare allora del tutto quel senso di distanza che si crea durante la spiegazione puramente scolastica: gli alunni intervengono, ed esponendo i loro punti di vista, spesso eccessivi, si convincono nella discussione, a cedere un po’, imparano a giustificare ciò che la loro giovinezza e inesperienza condanna o esalta troppo. Allora il professore diventa uno di noi, uno come noi, e sembra, a volte, che anch’egli, come noi, cerchi una spiegazione, una giustificazione di qualcosa che è oscuro in lui come in noi…E a poco a poco impariamo a conoscerlo.”

Questa testimonianza straordinaria di un’alunna che si firma soltanto così, “un’alunna”, ritrovata manoscritta tra le carte di Santo Calì, costituisce, per la freschezza e la vivacità del racconto, che ci immette direttamente nel clima di quella classe fortunata, un documento molto importante. Essa dimostra come non ci sia stato un vero iato tra il primo e il secondo Calì, come si suol ripetere, se non quello che la diversità delle stagioni imponeva. E, in ogni caso, Santo anticipò i tempi che vennero dopo. La sua maieutica era una dote innata, che nello strumento della discussione trovò il mezzo per esprimersi sempre più compiutamente.
“ Allora il professore – rileggiamo quanto scrive <l’alunna> – diventa uno di noi, uno come noi, e sembra, a volte, che anch’egli, come noi, cerchi una spiegazione, una giustificazione di qualcosa che è oscuro in lui come in noi.”
“ Scendere dalla cattedra- rileggiamo anche il Calì del ’71- e cercare criticamente, insieme agli alunni, non primus inter pares, ma uno di loro, la < verità >.”
Se poi cerchiamo il filo conduttore di questo suo instancabile agire, l’obbiettivo da sempre perseguito, anch’esso può esser ritrovato in quei primi esordi:
“ Il turismo scolastico- scriveva in “ Empedocle”- non si risolva nel vezzo di cento mani tese fuori dai finestrini di un autopullman a salutare, sia pure in una esplosione di gioia troppo a lungo contenuta sui banchi, gli ignoti viandanti che hanno l’unico torto di andare a piedi. Ma ogni gita sia preceduta e seguita da viaggi frequenti e intensi nel campo dello spirito, ed abbia una meta che non sia solo materiale. Se il turismo è oggi una delle risorse più importanti che interessano non solo l’elevamento economico ma anche quello culturale del nostro popolo, è compito ancora una volta della Scuola attendere alla formazione di una coscienza turistica che sia premessa di ogni futuro rinnovamento.
Anche qui insomma la Scuola sia preparazione alla vita e vita essa stessa.”