Lando Buzzanca, ovvero : perchè non è necessario interpretare film d’autore per entrare nella storia del cinema

Succede quasi sempre, è successo puntualmente anche con il grande Lando Buzzanca: quando muore un attore di film comici, o di commedie, i giornalisti cercano, forse per un malinteso tentativo di modificare la realtà, di porre la carriera di quell’interprete sotto una luce diversa. Come se essere un protagonista di film divertenti o brillanti non fosse sufficiente a giustificare un giusto tributo televisivo o giornalistico; come se una commedia fosse meno importante di un film drammatico; come se far ridere fosse più facile di far piangere.
Qualsiasi appassionato di cinema sa che non è così. Sa, per esempio, che Paolo Villaggio verrà ricordato per sempre per “Fantozzi”, per “Fracchia”, non per “La voce della luna” di Fellini (con tutto il rispetto, naturalmente).
Fatte le debite proporzioni, è un discorso valido anche per Buzzanca.
Ricordandolo, nel giorno della sua scomparsa, i telegiornalisti si sono affrettati a citare alcuni dei film in cui l’attore siciliano compare, sì, ma solo da co-protagonista, in ruoli non di primissimo piano (come lo stupendo “Sedotta e abbandonata” di Germi), o la sua interpretazione in “I Vicerè” di Faenza, che è sicuramente un’opera degna di nota, ma che non restituisce i veri motivi che stanno dietro l’incredibile popolarità di Lando Buzzanca.
I veri motivi li conoscono tutti: sono i film che lo fecero diventare l’assoluto protagonista di un genere cinematografico a sé stante, una evoluzione (secondo alcuni una involuzione) della commedia all’italiana, a partire da “Don Giovanni in Sicilia”, pellicola diretta da Alberto Lattuada, tratta da uno stupendo romanzo di Brancati. In quel film Buzzanca esce dal bozzolo del caratterista di successo, e anche da quello dell’attore comico puro, ruolo non esattamente adatto alle sue caratteristiche, diventando protagonista a tutti gli effetti. Si può certamente discutere sul livello artistico e produttivo di molti dei suoi successi, da “Il merlo maschio” di Pasquale Festa Campanile a “La prima notte del dottor Danieli…” di Giovanni Grimaldi, da “L’uccello migratore” di Luciano Salce a “Il domestico” di Luigi Filippo D’Amico, fino a “Il gatto mammone” di Nando Cicero: pellicole sicuramente non eccelse, e non al livello dei classici della commedia all’italiana, anche se dirette da ottimi professionisti. Ciò che rimane indiscutibile, tuttavia, è la capacità di Buzzanca di incidere in ognuno dei suoi film, e di arricchire dei personaggi che ad un occhio distratto sembravano tutti uguali con sfumature sempre diverse: così lo stereotipo dell’uomo meridionale, dotato e malato di sesso, viene vivisezionato, e in certi casi anche messo alla berlina. Furono questi film, sempre dignitosi, a dare a Buzzanca una popolarità inimmaginabile (anche all’estero), andando anche ad occupare un piccolo posticino nella storia del cinema italiano, e consegnando l’attore siciliano alla fama imperitura.