Emanuela Sansone, uccisa dai sicari “mafiosi” a soli 17 anni

C’era un tempo in cui le donne venivano uccise dai sicari mafiosi e l’atroce storia di Emanuela Sansone, una bella ragazza, uccisa a soli 17 anni il 27 dicembre del 1896 lo confermerebbe in quanto è rimasta avvolta nel mistero tra le pieghe di una storia archiviata come un fatto di criminalità comune . Mentre molto probabilmente furono i clan mafiosi a eseguire a Palermo l’omicidio forse per ritorsione. Oggi risulta essere stata la prima donna assassinata da Cosa nostra. Emanuela era la figlia di Salvatore, e di Giuseppina Di Sano, che erano proprietari di un negozio di generi alimentari a Palermo, in via Sampolo 20, nella zona Giardino Inglese. Tale magazzino di famiglia veniva adibito per molti usi quali merceria, pasteria e bettola nonché anche l’abitazione della famiglia. I sicari spararono due colpi di fucile ferendo gravemente la madre, colpita al braccio e al fianco, mentre uccisero con un colpo alla tempia Emanuela. Secondo le indagini portate avanti dalla polizia l’esecuzione fu organizzata con tutta probabilità perchè i mafiosi sospettavano che la madre li avesse denunciati per fabbricazione di banconote false. Tale episodio di cronaca nera venne analizzato con dovizia di particolari nei rapporti del questore di Palermo Ermanno Sangiorgi. Pertanto la madre della giovane sconvolta da questo agguato collaborò pienamente con la giustizia. E, quindi, questo fatto criminale va ricordato anche come uno dei primi esempi in cui avvenne la testimonianza coraggiosa di una donna, di una madre che intese rompere l’omertà dominante nell’ambiente sociale in cui viveva. Il rapporto di Sangiorgi è un documento assai rilevante che spiega con lucidità e chiarezza il contesto torbido della vicenda. In questo rapporto si fa riferimento al fatto che due settimana prima che la ragazza venisse uccisa i carabinieri avevano scoperto una produzione di monete false gestito proprio dalle famiglie mafiose in via Sampolo nella periferia di Palermo e che oggi ormai è una zona residenziale.
Subito dopo il sequestro del conio dove si fabbricavano le monete, i mafiosi iniziarono una ricerca per scoprire i responsabili dell’eventuale soffiata. I sospetti dei criminali si appuntarono su Giovanna Di Sano che gestiva questa attività commerciale vicino alla “fabbrica” dei falsari mafiosi. Un giorno pare che il proprietario di una conceria vicina, avesse mandato i propri figli ad acquistare merci dai Sansone e costoro tentarono di pagare con soldi falsi. Ma la signora Giuseppina, si accorse dell’inganno e li cacciò dal negozio, mentre successivamente il padre Salvatore andò a casa dei due giovani per sistemare la questione risolvendola con un pagamento parziale della merce anche se il padrone della conceria espresse rabbia ed ira. In seguito a questo episodio la gente dei quartiere mutò atteggiamento verso la famiglia Sansone e molte le donne del quartiere che smisero di fare la spesa nel loro negozio.

“Per quanto erroneo fosse stato questo sospetto – scrisse il Questore Sangiorgi nel suo rapporto – aveva molta apparenza di verità, giacché il torchio per la coniazione delle false monete fu impiantato, forse inconsciamente, dal cognato della detta donna”. E sempre Sangiorgi aggiunse che, secondo i sospetti mafiosi , la madre avendo saputo il luogo del conio ne avesse fatto confidenza “ai Reali Carabinieri”, i quali frequentavano la bottega e che “si forniscono di vino e commestibili” . Tra l’altro ,sempre nel rapporto, si menziona il fatto che il Comandante dei militi “si diceva amoreggiasse con Emmannuella Sansone”. Allora vi sarebbe stata una riunione del gruppo Falde, proprio il mandamento mafioso cui via S. Polo faceva capo, e venne ordinato e deciso la morte della donna. L’omicidio venne eseguito dopo quindici giorni e i mafiosi fecero un foro nel muro di cinta del negozio di Giovanna Di Sano. La mattina del 27 dicembre 1896, due uomini sconosciuti entrarono nella bottega per fare acquisti, mentre in realtà, come raccontò in seguito Giuseppina al questore Sangiorgi, fecero un controllo per verificare l’altezza del foro realizzato nel muro di un limoneto che era proprio di fronte al negozio. Naturalmente si accertarono che la linea di tiro fosse favorevole per giungere a bersaglio. La stessa sera verso le 20.00, i sicari fecero partire dei colpi di fucile dal foro che ferirono Giuseppina alla spalla e a un fianco, mentre uccisero la povera Emanuela. La notizia del terribile fatto di sangue venne riportato dal Giornale di Sicilia che scrisse: “La Emanuela Sansone, a tre quattro passi da sua madre, vicina a un tavolo scherzava allegramente con i suoi fratellini. In questo mentre si udivano due forti detonazioni, quasi simultanee”. Come sempre è accaduto in questi delitti mafiosi si cominciò a discettare che poteva essere stato un delitto passionale, forse anche scatenato dall’ira di un pretendente alla mano di Emanuela, forse rifiutato dalla madre perché privo di una “posizione lavorativa stabile”. Si pensò anche ad uno scambio di persona in quanto il bersaglio poteva essere il padre che stava giocando a carte con un amico proprio nella loro bottega. Bisogna dire che la donna non denunciò mai nessuno per la storia delle banconote false. Il dolore di Giuseppina per la morte della figlia fu immenso e la stessa si costituì come testimone nel processo convinta dal questore Sangiorgi che riuscì a fare avviare nel maggio nel 1901 un processo contro 51 imputati di crimini mafiosi.
Cominciò la seconda odissea per Giuseppina,la quale ricevette continue minacce di morte e non ebbe la solidarietà del quartiere in cui viveva. La donna però non cedette alla paura ,andò avanti nonostante l’ isolamento da parte degli abitanti di tutto il quartiere e tale stato d’animo è spiegato in modo perfetto dalla donna nel verbale redatto davanti alla polizia. : “Quasi che io fossi la colpevole mi son veduta da allora mal vista e sfuggita da tutti, tanto che sono assai pochi coloro che vengono a fare acquisti nel mio negozio, restringendosi il loro numero agli onesti, che non sentono le influenze della mafia; sicché al danno sofferto, in conseguenza del disastro che mi colpì, e per cui dovetti sostenere ingenti spese, ed alla piaga insanabile che mi produsse nel cuore la disgraziata morte della diciottenne mia figliuola, si aggiunge ora il danno economico prodottomi dalle persecuzioni della mafia, che non mi perdona mai una colpa che io mai commisi”.
Purtroppo gli esiti del processo non furono quelli che il questore e la coraggiosa Giuseppina si aspettavano. Vi furono come sempre ritrattazioni, omertà, ripensamenti, e si comminarono pene inferiori rispetto a quanto previsto dal codice vigente. E poi vi furono anche le testimonianze di parlamentari, nobili e professionisti della zona che permise di scagionare ben 19 imputati.