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Film da recuperare: “The irishman”

Perché recuperare “The Irishman” di Martin Scorsese, film del 2019?
Per un motivo molto semplice: è una pellicola straordinaria. Una delle più belle, secondo me, di Scorsese, e anche una delle più significative.

Benché sia caratterizzata da un paradosso, quello di non essere stata prodotta da una casa cinematografica, ma da Netflix: la Paramount, o chi per essa, aveva trovato troppo costoso il progetto (quando invece viene prodotta robaccia costosissima sui soliti supereroi ). Giusto? Sbagliato? Non importa, non siamo noi a decidere.

Ho avuto la fortuna di vedere il film al cinema, ed esattamente al King di Catania, deliziosa alternativa alle multisale tecnologiche, quelle con le poltroncine comode e spaziose, con audio e video perfetti, con i cestini di pop-corn così grandi che dentro potrebbe starci un intero tacchino ripieno. Il King è una sala piena di fascino, in cui ho visto solo film belli o bellissimi (come “I padroni della notte” di Gray), e vale sempre la pena.

“The Irishman” non è, però, come aveva suggerito il grande Paul Schrader, “Il mucchio selvaggio” del genere gangster-mafia: al contrario, le assonanze più evidenti sono con la parabola cinematografica di John Ford e, in un certo senso, di John Wayne. Il lento incedere del film, il suo essere una riflessione sulla violenza e sul marciume sui quali si poggia la cosiddetta società civile, rimandano al magnifico “L’uomo che uccise Liberty Valance”, che fu il vero testamento di Ford e del suo modo di intendere il western, così come “The Irishman” è, probabilmente, la pietra miliare definitiva del genere gangster.

La malinconia che pervade la pellicola, in particolare nel finale, quando il pensiero della vecchiaia e della morte diventano predominanti, fa pensare a “Il pistolero” di Don Siegel, l’ultimo film di John Wayne, che non a caso viene citato nella pellicola di Scorsese, attraverso l’inquadratura di un cinema che proietta il film nel 1976.

I temi del pentimento, del rimorso, del peccato, del tradimento, che emergono prepotentemente quando il protagonista non riesce a ribellarsi ad un destino ineluttabile, mi hanno ricordato “Il traditore” di John Ford, capolavoro del 1935 nel quale il protagonista è, non a caso, un irlandese, cioè un “irishman”.

Il film di Scorsese è una gioia per gli occhi e, per un cinefilo come me, anche un sollievo, sia pur momentaneo, di fronte al decadimento di Hollywood e del cinema in generale. E’ un’opera straordinaria perché in essa istinto e razionalità, ragione e sentimento, prosa e poesia sono in equilibrio perfetto: non è facile pensare di girare un capolavoro e poi realizzarlo, Scorsese ci è riuscito, a lui va il mio plauso e la mia riconoscenza.

Mi sono già dilungato troppo, ma due paroline per gli attori vanno spese: sono di un altro pianeta. Pesci è eccellente, la sua interpretazione è ricca di sfumature e misuratissima; così come quella di De Niro, che come in “Heat” lavora per sottrazione, quasi in maniera sommessa e dolente.
Pacino è, pur non essendone il protagonista, il vero motore della pellicola: la sua performance avrebbe dovuto valergli il secondo Oscar della carriera, ma si sa come sono fatti i membri dell’Academy. Impermeabili alla bravura, anche quella più evidente.

In “The Irishman” c’è molta storia americana, e tantissima storia del cinema, e per questo va riscoperto, anche solo per curare la ferita delle 10 nominations agli Oscar senza alcun premio vinto.
L’affetto degli appassionati, si sa, è l’unico vero premio che conta.

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Ivano Di Puglia, 49 anni, ingegnere edile e libero professionista. Appassionato di cinema sin da bambino, dello sport in generale e del tennis in particolare, amante dell'arte, della letteratura (anche quella a fumetti), della poesia. Ha collaborato, per un breve periodo, alla fanzine cinematografica "The Ed Wooder".
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