Il ritorno nelle sale di “Avatar”

Correva l’anno 2009 quando le sale di tutto il mondo furono invase da alieni blu e spilungoni, veicolati da una pellicola che, secondo gli esperti, avrebbe rivoluzionato il cinema: “Avatar” di James Cameron, arrivato in Italia sull’onda di un successo di pubblico sensazionale, destinato ad abbattere ogni precedente record di incassi.
Il film è stato re-distribuito in queste settimane, a 13 anni di distanza, e questo, assieme alla notizia della prossima distribuzione del secondo capitolo di quella che si preannuncia come l’ennesima saga (“Avatar- La via dell’acqua”) ci consente di spendere due parole sul tema: è stata vera gloria?
Probabilmente no. Innanzitutto, perché “Avatar” ha fallito in quella che era la vera missione di Cameron, che a prescindere da ogni valutazione artistica sul film, si era posto l’obiettivo, costoso e ambizioso, di cambiare radicalmente il volto dello spettacolo cinematografico, almeno dal punto di vista tecnologico.
Quella che, nostalgicamente, chiamo “pellicola”, era in realtà un’opera girata completamente in digitale e in tre dimensioni, con riprese effettuate in uno speciale teatro di posa, con cineprese ad hoc e attori dotati di tute e caschi. Un immane sforzo tecnologico, finalizzato a raggiungere l’obiettivo di far vedere, agli spettatori, un film in tre dimensioni, rendendoli dunque, almeno nelle intenzioni del regista, maggiormente partecipi degli sviluppi del film.
Chi ha visto “Avatar” al cinema ricorderà sicuramente come la visione dell’opera comportasse l’utilizzo di occhiali speciali, senza i quali l’effetto tridimensionale non sarebbe stato percepito: uno stratagemma che mi aveva fatto rimbalzare nel passato, anziché nel futuro, visto che gli occhialini tridimensionali erano un artificio utilizzato sin dagli anni cinquanta, e poi ancora negli anni ottanta, quando con “Lo Squalo 3 – 3D” il cinema americano aveva provato a giocarsi la carta della tridimensionalità.
Ecco, già nel 2009, durante la visione del film, questa iniziativa mi aveva lasciato abbastanza perplesso, ma dopo tredici anni posso ribadirlo con forza: il cinema tridimensionale, infatti, non ha preso piede, e mi sento di aggiungere che non è stato un male. Sia per il costo spropositato di tecnologie che, alla luce dei risultati ottenuti, non valgono la spesa (l’effetto di “stare dentro il film” non è stato raggiunto), sia per un motivo ancora più semplice: per i veri amanti del cinema, i film sono sempre in tre dimensioni. Non c’è bisogno di alcun accorgimento per proiettare un cinefilo dentro un’opera cinematografica, se non la qualità dell’opera stessa, la sua capacità di emozionare e coinvolgere.
Ed è lì che si tocca un altro punto dolente di “Avatar”, che è sicuramente un film moderatamente godibile, ma niente di più. Il suo difetto principale, come a volte succede nei film di Cameron, sta nella sceneggiatura: troppo impegnato nelle sue elucubrazioni sulla tridimensionalità, il regista ha pensato bene di semplificare i percorsi narrativi, elaborando una storiellina semplice, con fini pedagogici abbastanza scontati, su un popolo di buoni vessato dai soliti cattivi. Troppo poco per farmi piacere un film che ha il suo momento più emozionante, e più sincero, nella sequenza in cui il protagonista recupera, grazie al suo avatar, l’uso delle gambe: quello sì un bel momento di cinema, nel quale Cameron si ricorda di avere qualità non comuni.