Cesare Terranova,memoria di un grande giudice

Cesare Terranova cominciò la sua carriera di magistrato nel 1946 in Sicilia nel dopoguerra dopo un periodo di lunga prigionia. Inizialmente fu nominato Pretore a Mesina e a Rometta,mentre successivamente divenne giudice istruttore a Patti. Già nel 1958 si trasferì nel Tribunale di Palermo e inizio a lavorare all’Ufficio Istruzione del capoluogo siciliano dove condusse importanti e rilevanti indagini emettendo storiche sentenze istruttorie di mafia che portarono alla sbarra nel 1964 il boss Angelo La Barbera(processo dei 117). Da ricordare anche l’inchiesta del maggio 1965 contro Pietro Torretta e altri 120 mafiosi che si celebrò a Catanzaro. Fu un antesignano della lotta alla mafia e seppe esaminare i fatti sanguinosi del 1962-63, in successione anche il processo contro la cosca dei corleonesi di Luciano Leggio, resosi responsabile di gravi fatti criminali.Le sentenze furono emesse nell’ agosto 1965 e nell’ ottobre 1967, e tale gruppo emergente della mafia venne soprannominato dai giornali “Anonima Assassini”. Il processo si tenne nel 1969 a Bari per tutti gli episodi criminali che avevano insanguinato Corleone dal 1958 al 1963. Purtroppo entrambi i processi finirono male per l’accusa e il magistrato provò una forte delusione dopo tanti anni di lavoro e indagini. Infatti a Catanzaro si riuscì a ottenere dalla Corte, con la sentenza finale del 22 dicembre 1968, soltanto pene davvero minime e irrisorie dai 6 ai 4 anni, peraltro inflitte a imputati a piede libero per scadenza dei termini. Mentre altri 44 imputati furono assolti per insufficienza di prove anche perché a Bari, forse, ci furono pressioni di minacce e intimidazioni con un pesante condizionamento psicologico e ambientale. Venne persino fatta a recapitare una lettera anonima, firmata con una croce, indirizzata al presidente Vincenzo Stea e a tutta la corte. Il pubblico ministero Domenico Zaccaria non riuscì a ottenere i 3 ergastoli e i 300 anni di carcere chiesti nella requisitoria e, così, la sentenza finale del 10 giugno 1969, destando maggiore stupore e sconcerto che a Catanzaro, venne emessa con ben 64 assoluzioni. In quell’occasione il futuro “capo dei capi” Totò Riina fu condannato solo per il furto di una patente. Fu sostanzialmente demolito tutto l’impianto accusatorio tracciato in istruttoria. D’altronde al processo di Bari l’accusa portò a giudizio le dichiarazioni di un testimone d’eccezione, uno dei primissimi collaboratori di giustizia, Luciano Raia, che si “pentì” il 12 gennaio 1966 e collaborò col vicequestore di Palermo, Angelo Mangano, e con Terranova, rivelando la struttura e le responsabilità criminali della cosca di Leggio. Tutto ciò non servì a nulla e nei confronti del pentito furono rivolte invece accuse calunniose di essere un malato di mente e un depravato . Tali illazioni e falsità furono supportate da svariate perizie psichiatriche, oltre che da gente di Corleone che lo conosceva. Bisogna dire che sia le assoluzioni di Catanzaro e Bari vennero definite “la bancarotta dell’impegno giudiziario e repressivo degli Anni Sessanta”. In realtà vi fu da parte delle corte giudicanti se non malafede almeno superficialità e scarsa preparazione nell’ambito della conoscenza del fenomeno mafioso. Vi fu anche la pretesa senza la necessaria esperienza di saper giudicare la mafia siciliana e sicuramente le istruttorie si avvalsero di impianti probatori a volte mal connesse al punto che poterono benissimo essere confutate. Il giudice Terranova fu uno dei pochi capaci di portare avanti i procedimenti e ,infatti, si riscattò quando la corte d’appello di Bari che il 23 dicembre 1970, riformando la precedente sentenza di primo grado, condannò Leggio all’ergastolo per l’omicidio di Michele Navarra anch’esso capo mafia di Corleone. Lucianeddu fu battezzato “la Primula rossa” per l’abilità con cui sfuggì all’arresto fino al 1974 e non vide l’ora di vendicarsi nei confronti di Terranova e di Mangano, per la tenacia con cui condussero le indagini arrivando alla sua condanna. Niente meno il boss mafioso dichiarò con sfrontatezza alla stampa e al magistrato in persona, quando venne a interrogarlo in carcere in veste di commissario antimafia, che si sarebbe vendicato. Terranova divenne procuratore della Repubblica a Marsala nell’agosto del 1971 e qui raggiunse una notorietà nazionale quando si occupò del rapimento e dell’omicidio di tre bambine per opera di quello che la stampa definì il “mostro di Marsala”. Terranova fu un ottimo investigatore e riuscì ad individuare il colpevole in Michele Vinci, zio di Antonella, che confessò il delitto e fu condannato.
Poi Terranova scelse l’attività politica e fu eletto alla Camera dei Deputati nella lista del PCI, come indipendente di sinistra, nel collegio della Sicilia occidentale, nel 1972 e venne rieletto nel 1976, sino al 1979. Fu un attivissimo e preparatissimo segretario della Commissione parlamentare Antimafia nella VI Legislatura ed insieme ad altri deputati del PCI quali per esempio Pio La Torre, elaborò la relazione di minoranza in cui si criticò le conclusioni di quella della maggioranza che venne redatta dal deputato democristiano Luigi Carraro. In tale relazione di maggioranza vennero sottaciuti o sottovalutati i collegamenti fra mafia e politica, e in particolar modo il coinvolgimento della Democrazia Cristiana in numerose vicende di mafia. Nelle relazione redatta da Terranova, invece, si mise in rilievo il ruolo ambiguo dei deputati democristiani ed in particolare si chiamarono in causa Giovanni Gioia, Vito Ciancimino e , Salvo Lima e altri uomini politici di avere rapporti con la mafia. La sua attività di parlamentare fu svolta in vari campi di intervento e fu animata sempre dall’impegno civile e sociale. Fece parte anche nella VI legislatura fece parte della Commissione Giustizia e della Commissione speciale per l’esame dei provvedimenti relativi agli immobili urbani e alla disciplina dei contratti di locazione. Nella VII legislatura fece parte prima della commissione Difesa e poi di alcune commissioni preposte ad affari interni. Fu primo firmatario di progetti di legge di pubblica utilità come quello relativo alla proibizione della vendita e del commercio di giocattoli pericolosi per i bambini. Terranova tornò in magistratura nel 1979 per essere nominato in luglio Consigliere presso la Corte di appello di Palermo. Naturalmente in attesa di una destinazione probabilmente a capo dell’Ufficio Istruzione. Ma la sua vita giunse al termine nell’agguato la mattina del 25 settembre del 1979 quando la Fiat 131 di scorta arrivò sotto casa del giudice a Palermo per portarlo al lavoro. Cesare Terranova guidò la vettura mentre accanto vi era il maresciallo di Pubblica Sicurezza Lenin Mancuso, che fu l’unico uomo della sua scorta che lo seguì dal 1963 con la dedizione di un angelo custode. Il giudice Terranova venne ucciso insieme al suo autista nonostante il tentativo di sfuggire e i due furono raggiunti dai proiettili dei sicari. Al giudice Terranova fu sparato anche un colpo di grazia alla nuca. Mentre Lenin Mancuso, morì alcune ore dopo in ospedale.
Francesco Di Carlo, di Altofonte, esponente di spicco del mandamento di San Giuseppe Jato, uomo di fiducia di Bernardo Brusca, indicò in Luciano Leggio, come mandante l’assassinio del magistrato e come esecutori materiali: Giuseppe Giacomo Gambino, Vincenzo Puccio, Giuseppe Madonia e Leoluca Bagarella. Nel 1997 fu riaperto il procedimento contro altre sette persone, esponenti della cupola palermitana, che diedero il permesso di eliminare il giudice, perché stava per diventare giudice istruttore. I nomi indicati furono quelle della cupola di cosa nostra e cioè Michele Greco, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Antonino Geraci, Francesco Madonia, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Leonardo Sciascia descrisse mirabilmente il valoroso giudice in un suo scritto. “E credo gli venisse, tanta acutezza e tenacia e sicurezza, appunto dal candore: dal mettersi di fronte a un caso candidamente, senza prevenzioni, senza riserve. Aveva gli occhi e lo sguardo di un bambino. E avrà senz’altro avuto i suoi momenti duri, implacabili; quei momenti che gli valsero la condanna a morte: ma saranno stati a misura, appunto, del suo stupore di fronte al delitto, di fronte al male, anche se quotidianamente vi si trovava di fronte”.