Giovanni Falcone ha conosciuto la solitudine, l’infamia e la calunnia

Giovanni Falcone, prima di essere ucciso a Capaci, ha conosciuto la solitudine, l’infamia e la calunnia. Niente meno fu accusato di essersi organizzato il fallito attentato dell’Addaura e persino di aver organizzato il rientro del pentito Contorno in modo da sterminare i capi di Cosa Nostra. Poi il Csm non gli consentì di essere nominato consigliere istruttore del pool antimafia al posto di Caponnetto preferendogli un magistrato più anziano ma sprovvisto di conoscenze professionali sul versante della lotta alla criminalità mafiosa. Ancora dopo non fu eletto a fare parte del consiglio superiore della magistratura e si scontrò duramente con il procuratore generale di Palermo Giammanco. Fu tradito, infangato e screditato da uomini dello Stato, forse per invidia, forse per altri scopi reconditi e inconfessabili. Conquistò la gloria fuori dai palazzi di giustizia e del potere, tra la gente che lo amava e lo stimava, divenne celebre fuori dall’Italia che riconosceva in lui un grande magistrato e l’uomo coraggioso che non si fermava di fronte al pericolo di mettersi contro l’organizzazione più pericolosa del mondo. Fu un magistrato preparato, di notevole professionalità ma anche equilibrato e rigoroso che fondava la sua azione giudiziaria su prove certe e inconfutabili. Bisogna dire che ebbe massima fiducia nella sua figura il ministro della Giustizia Claudio Martelli, che lo nominò direttore generale degli Affari Penali, dove lui prosegui con intelligenza e tenacia la sua lotta contro la mafia iniziata nel 1978 a Palermo accanto al giudice Chinnici, ucciso dalla mafia in un terribile attentato. In questo ruolo svolse un ruolo fondamentale nella definizione del provvedimento legislativo del 41 bis che è stato una strumento per isolare i boss di Cosa Nostra in carcere. Nonostante vide cadere ad un uno, vittime della mafia gli investigatori che lavoravano al suo fianco. Cassarà, Montana, agenti di polizia, carabinieri, lui non si fermò mai, non teneva di morire, affinando il suo legame di profonda amicizia con Paolo Borsellino, e portando a termine il maxi-processo che ha segnato la storia del nostro paese che poi lui stesso difese quando lavorò al Ministero. Dobbiamo pensare sempre a tutto ciò per comprendere le amarezze che ha dovuto subire in vita questo valoroso magistrato da uomini dello Stato e delle istituzioni prima di essere barbaramente assassinato nella strage di Capaci. La sua grandezza consiste anche nel modo onesto, lieve, ironico e gentile con cui ha saputo attraversare la vita sino alla sua tragica fine. Bisogna sempre onorarlo provando ribrezzo e sdegno verso gli uomini del disonore che hanno deciso la sua fine. Dobbiamo non solo condannare chi l’ha assassinato ma continuare la ricerca per fare piena luce su eventuali “menti raffinatissime” che hanno concorso per determinare la sua tragica fine.