Rocco Chinnici,indagò sul patto mafia politica ed educò i giovani alla legalità

Il 29 Luglio del 1983 un terribile attentato dinamitardo fece saltare in area il capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo Rocco Chinnici. Insieme a lui davanti alla sua abitazione nell’esplosione persero la vita due uomini della sua scorta il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta. Mentre l’autista Giovanni Paparcuri rimase gravemente ferito ma riuscì a sopravvivere divenendo nel tempo un prezioso collaboratore del giudice Giovanni Falcone. Nella strage rimase ucciso anche il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi. Il magistrato venne ucciso proprio quando stava per uscire di casa in via Federico Pipitone a Palermo alle ore 8.05 da un’esplosione partita da una 126 imbottita di ben 75 chili di tritolo e che venne parcheggiata davanti all’abitazione del consigliere istruttore. Fu un attentato organizzato da Cosa nostra con un autobomba che somigliò per la ferocia al terrorismo-stragista, che nel passato avvenne con la strage di Ciaculli nel 1963. “Palermo come Beirut” fu scritto su giornali dell’epoca proprio per la similitudine con quello che avveniva in Libano all’epoca. L’assassinino di Rocco Chinnici fece seguito agli omicidi di uomini e servitori dello Stato che si opposero a Cosa Nostra con coraggio e a viso aperto. Infatti a Palermo prima dell’omicidio di Chinnici furono eliminati Boris Giuliano, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Calogero Zucchetto, Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Carlo Alberto dalla Chiesa e tanti altri ne seguirono dopo questo barbaro omicidio. Colpì l’efferatezza dell’azione criminale ma la ragione fu semplice e lampante. Infatti Rocco Chinnici, Capo dell’Ufficio Istruzione, decise di dichiarare guerra alla mafia , cosa che sino a quel momento veniva fatta in modo timido e debole. Il magistrato osò sfidare Cosa Nostra nei suoi interessi economici e fu il primo a intuire che oltre ai boss e ai picciotti, c’era un “terzo livello”, oltre alla Cupola mafiosa che dirigeva la mano armata. Prese coscienza che vi era una regia occulta che agiva e che rafforzava l’organizzazione criminale. In tal senso Chinnici divenne l’autore e ispiratore del cosiddetto “pool antimafia”, che poi fu reso operativo e attuato dal suo successore Antonino Caponnetto. Di quel pool di magistrati fecero parte all’inizio Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello e subito dopo la morte di Chinnici, Caponnetto decise di inserire anche Leonardo Guarnotta. Si cominciò un mastodontico lavoro con un rapporto chiamato “Michele Greco+161” che, poi, fu inserito nel maxi processo alla mafia. Il giudice fu tra i primi a ricercare di approfondire e di studiare il fenomeno mafioso nel tentativo di trovare tutte le interconnessioni tra i grandi omicidi che si verificarono in quegli anni. “Non si stancò mai di ripetere, ogni volta che ne ebbe occasione, che solo un intervento globale dello Stato – disse Paolo Borsellino parlando di Chinnici -, nella varietà delle sue funzioni amministrative, legislative ed, in senso ampio, politiche, avrebbe potuto sicuramente incidere sulle radici della malapianta, avviando il suo processo di sdradicamento”. Le inchieste di Chinnici furono incentrate sul rapporto tra mafia e politica e fu il magistrato che ebbe il coraggio di indagare i cugini Ignazio e Nino Salvo, potenti esattori e considerati la “cerniera” tra la mafia e la politica, come dimostrò a sentenza del 2000, in cui fu ricostruito anche il movente per cui fu ucciso il magistrato. Infatti, per la strage di via Pipitone, la Corte d’Assise di Caltanissetta condannò all’ergastolo esecutori e mandanti. In tal senso si mossero per attuare il disegno criminale la cupola con Salvatore Riina, Bernardo Provenzano ed Antonino Madonia, quest’ultimo premette il telecomando della bomba. Le condanne divennero definitive in Cassazione nel 2003. I Pm Nino Di Matteo e Anna Maria Palma, che rappresentarono l’accusa nel processo di primo grado sulla strage di via Pipitone, misero in luce il fatto che “l’uccisione del giudice Chinnici fu voluta dai cugini Ignazio e Nino Salvo e ordinata dalla cupola mafiosa, per le indagini che il magistrato condusse sui collegamenti tra la mafia e i santuari politico-economici”. I Salvo furono definiti, poi, nelle sentenze passate in giudicato “uomini d’onore della famiglia di Salemi. Avevano un ruolo di raccordo, nel panorama politico siciliano, quali esponenti di spicco di un importante centro di potere politico- finanziario, tra Cosa nostra ed una certa classe politica”. In particolare fu scoperto sul piano giudiziario il collegamento con la corrente andreottiana della Democrazia cristiana. Furono poi grazie alle importanti rivelazioni del collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca, ex capo mandamento di San Giuseppe Jato, che Nino Di Matteo riuscì a trovare i riscontri delle dichiarazioni del pentito con numerosi dettagli dell’aspetto organizzativo dell’attentato. Brusca raccontò il retroscena parlando di una riunione tra Nino Salvo, il padre Bernardo Brusca e Totò Riina in cui si decise l’eliminazione del giudice e in cui al termine della quale gli fu detto da Totò Riina: “Finalmente è venuto il momento di rompere le corna a Chinnici, mettiti a disposizione di don Nino”. Il magistrato non si limitò alla sua azione innovativa giudiziaria, fu anche un “pioniere” della lotta culturale che portò avanti nelle scuole per sensibilizzare i giovani sui rischi della tossicodipendenza e sui collegamenti tra droga e mafia. Chinnici affermò in un celebre discorso: “Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai”. Il suo impegno intelligente fu un esempio fulgido, attuale e lungimirante che pose le basi del lavoro, proseguito da Falcone e Borsellino con il maxi processo che mise per la prima volta alle corde Cosa Nostra.