Jean Luc Godard, enigmatico genio del cinema e innovatore del linguaggio

Jean Luc Godard è morto ieri (13 settembre) a Rolle, nella sua casa vicino Ginevra, circondato dalla famiglia e dalla moglie Anne Marie Mieville, all’età di 91 anni. Secondo il giornale francese “Liberation” il regista francese (che aveva anche cittadinanza svizzera) sarebbe ricorso al suicidio assistito. Nel 2014, in una intervista a margine della conclusione del Festival di Cannes, aveva detto: «Non ho l’ansia di proseguire ad ogni costo. Se sono troppo malato, non ho alcuna voglia di venire trascinato su una carriola…»
Il primo ricordo, paradossalmente quello più vivido, risale a quasi quaranta anni fa, quando Jean-Luc Godard presenta a Venezia il suo film “Prenom Carmen”, che poi vince il Leone d’Oro. Il regista francese non ha mai brillato per simpatia, soprattutto nei confronti della critica, dalle cui file peraltro proviene, e la critica ne ha un sacro e reverenziale timore. Alla conferenza stampa la maggior parte degli intervenuti, compreso il sottoscritto allora giovane collaboratore de “La Sicilia”, deve ancora digerire il film con Maruschka Detmers, chiaro omaggio alla “Carmen” di Bizet dal meno chiaro significato. Ricordo gli sguardi che i colleghi si lanciavano l’un l’altro: chi avrebbe azzardato la prima domanda? chi avrebbe rischiato di ricevere una ramanzina pubblica dal “maestro”, dal “genio” del cinema francese, dal regista che più di ogni altro si mette in gioco e rinnova, dal di dentro, l’arte dell’audiovisivo. Sì, perché Godard è stato il primo a cimentarsi con lo stravolgimento della grammatica cinematografica, il primo a tentare nuove vie per l’uso della videocamera, sempre il primo a inventare nuovi linguaggi. Aveva iniziato con l’ormai mitico “A bout de souffle” (scritto da Francois Truffaut e interpretato da Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg), del 1960, manifesto della Nouvelle Vague che avrebbe influenzato centinaia di cineasti in tutto il mondo. Ma, 23 anni dopo a Venezia, anche “Prenom Carmen” sconvolge il linguaggio cinematografico, pone le basi per nuovi cambiamenti, reagisce alle convenzioni e alle abitudini. Le domande iniziano, le risposte del “maestro” restano enigmatiche per i più, poi lui sorride e prova, non a spiegare, ma a descrivere, il suo film: parla dei corpi (della Detmers e di Jacques Bonaffé), della musica (i quartetti di Beethoven che sfumano in “Ruby’s Arms” di Tom Waits), del terrorismo e del disordine della società, del linguaggio e del significato negato, poi parla di ciò che viene prima del nome, di sé stesso nel ruolo di un regista che si fa internare, sano, in una clinica psichiatrica, del caos delle sparatorie e della trama e, alla fine, i pezzi del film si ricompongono, l’ironia dello sguardo del regista si allinea con l’ironia della macchina da presa, i critici smettono di interrogarsi sul messaggio e accettano l’atmosfera, l’empatia, l’armonia create da Godard nella sua opera. Non è facile, parlarne senza rivederlo, e non è facile ricordare la figura di Jean-Luc Godard se non avendolo conosciuto di persona, anche se i suoi film parlano per lui. Forse la sua vita artistica è racchiusa tra il primo film del 60 e questo dell’83 (nel senso che quelli che seguono ne sono il logico sviluppo), o anche nella frase che chiude “Prenom Carmen”, “Come si chiama quando gli innocenti sono da una parte e i colpevoli dall’altra?”, mentre la sua vita privata la si può interpretare a partire dal titolo di quest’altro, del l’80, Sauve qui peut (la vie).