La guerra dei grandi combattuta dai piccoli

“Era partito per fare la guerra
Per dare il suo aiuto alla sua terra
[…]
Ora che è morto, la patria si gloria
Di un altro eroe alla memoria”
Aprire questo articolo con uno dei pezzi più importanti di De Andrè contro la guerra, tirandolo fuori dal contesto della guerra Russia – Ucraina, ci aiuta a capire non solo la ciclicità della guerra ma l’incapacità umana di fare della storia un’arma (simbolica, si fa per dire) contro un crimine che minaccia, da sempre, l’umanità.
Il sentimento della Patria è il rapporto più intimo che intercorre fra un cittadino e la sua nazione, qualcosa che in Italia è venuto a mancare in un primo momento dall’Unità d’Italia (di cui abbiamo festeggiato il 161esimo anniversario proprio qualche giorno fa), ma che nel corso del Novecento è venuto a delinearsi sempre di più. È il sentimento di unione alla propria nazione che spinge De Andrè, nei primi versi de “La ballata dell’eroe” a sottolineare l’importanza “dell’aiuto alla propria terra”. La guerra, d’altronde, non si sceglie. È scelta da uomini potenti, soli al comando varcando soglie che trascendono fra l’onnipotenza, il delirio e il sentimento d’essere al di sopra della legge internazionale, oltre che morale ed etica.
“Homo homini lupus”, un concetto comparso per la priva volta negli scritti di Plauto, ripreso secoli e secoli dopo da Hobbes, tanto per sottolineare che, come detto in apertura la storia è ciclica, cambiano gli interpreti e le cause, cambiano gli strumenti e i modi, ma la sostanza è sempre quella: l’uomo sarà sempre nemico di sé stesso. Ma in quanto uomini, non possiamo polarizzare la guerra; in un conflitto non ci sono mai buoni e cattivi (eticamente, ovviamente sì, ma sempre esseri umani si rimane), al massimo carnefici e vittime. E quando un orrore del genere non abita più solo i palazzi diplomatici ed istituzionali con incontri e dialoghi, ma raggiunge il cuore della popolazione, le arterie delle nostre case, i polmoni delle nostre città, ecco, lì dobbiamo dimostrare d’essere umani e non di essere dei lupi.
A tal proposito, riecheggiano le parole di Gino Strada, morto l’estate scorsa durante la presa del potere di Kabul da parte dei talebani, un giorno dichiarò: – “Emergency cura i talebani? «Sì, perché siamo medici e prima ancora esseri umani, e anche per il più crudele dei terroristi vale il diritto fondamentale a essere curati”
Non sono parole d’un uomo qualunque. Gino Strada conobbe la guerra, fece, della guerra, motivo di vita in funzione per l’aiuto degli altri. Fece suo un concetto che condivido pienamente, ovvero che “la guerra non è mai nostra”. Non può esserlo, proprio per il principio che l’uomo non può e non deve essere causa dei suoi mali e, anzi, deve essere faber fortunae suae, come si diceva nel periodo dell’Illuminismo, proprio quel periodo in cui cominciò ad affermarsi il senso della politica come bene comune proprio in funzione di evitare le guerre, mettere da parte i conflitti che, lo ripeto, sono esistiti, esistono ed esisteranno sempre, perché non saremo mai in grado di superare quel senso di (pre)potenza che ci spinge a dover prevalere sull’altro. Allora, continueremo a partire in guerra, ad essere pedine di sistemi che la guerra non la fanno ma lasciano agli altri il compito di farla, continueremo ad essere figli della nostra Patria e fautori del nostro destino. Resteremo sempre eroi di una memoria che non deve essere dimenticata.