L’idea di giustizia per il maestro di Racalmuto

Il maestro di Racalmuto si è sempre arrovellato su un’idea che “la Giustizia senza pietà è maschera di vendetta”. Si rifece ad un celebre paradosso utilizzato da Orwell quando parlò dei santi collegandolo agli uomini di legge e affermando che “tutti i giudici sono colpevoli, fino a prova contraria”. I giudici sono i detentori di un potere “terribile”, come soleva affermare Montesquieu, che li ponevano naturalmente in una posizione di superiorità sopra di tutti gli altri uomini. Leonardo Sciascia pensa che un giudice non dovrebbe tanto “godere” di questo potere, mentre deve soprattutto “soffrirlo” nell’intimo. Sciascia nella sua copiosa opera letteraria mise sempre al centro il tema della giustizia affrontandolo da romanziere, da saggista opinionista, da direttore editoriale della collana Sellerio. Nel romanzo “Il contesto”, lo scrittore disvela l’essenza fondamentale della giustizia che si manifesta sotto il profilo inquisitorio. In questa scrittura si mette in rilievo che il giudice interroga non solo per accertare la verità ma soprattutto per dimostrare una colpevolezza. Nel romanzo “A porte aperte”, tratta il tema della pena di morte, fino ai lungimiranti, profetici e splendidi articoli che poi vengono raccolti nel libro “A futura memoria”, che uscì l’anno della sua morte, nel 1989. In questa raccolta si mostra come la questione della giustizia per lo scrittore siciliano diviene la sua “virtuosa ossessione”.
In parte Sciascia sembra profondamente impregnato e influenzato dalla giustizia descritta nella Divina Commedia anche se lo scrittore non scrisse mai sul “sommo poeta” tranne qualche articolo uscito su “l’Ora” di Palermo nel lontano 1965 e, poi, ebbe su Dante qualche conversazione con il grande scrittore argentino Borges nel 1982. Eppure sembra che neòllo scrittore siciliano si rintracci l’orizzonte della visione dantesca sulla giustizia. Il padre della letteratura italiana dall’Inferno al Purgatorio era intriso dall’ethos aristotelico tipica del mondo pagano, che esaltava il valore della giustizia, rispetto alla dimensione dell’etica cristiana, che, invece, attribuiva il primato morale e civile all’amore.
Proprio nel Paradiso possiamo leggere che per l’imperatore legislatore Giustiniano, la giustizia viene simboleggiata con l’aquila imperiale e si intreccia con la vendetta, in un modo inquietante: “Ché la viva giustizia che mi spira, / li concedette, in mano a quel ch’i dico, / gloria di far vendetta a la sua ira”.
In tal senso la giustizia si fonda su due elementi proporzionali che sono la bilancia e la razionalità. Mentre l’amore, nella dimensione della cristianità , si costruisce su una dismisura esplicitata nella gratuità assoluta. Cosicchè l’amore cristiano dovette apparire alla cultura pagana ed ellenica una incomprensibile follia e un paradosso assoluto.
Dunque Sciascia sembra permeato nel suo vissuto culturale da queste influenze e nel regno della giustizia troviamo criteri e canoni fondati sulla ragionevole proporzionalità , su equivalenze, su diritti, pene e compensazioni e su procedure però alla fine se ne distanzia. Sciascia si allontana dalla famosa legge del contrappasso dantesca che è un’equilibrata corrispondenza tra pena e colpa in cui la legge del taglione è qualcosa di inesorabile. Mentre si avvicina all’idea del regno dell’amore che è abitato dalla misericordia, che implica una “esagerazione”, o, come direbbe Papa Francesco, “un inaudito straripamento”.
E quindi per Dante i due termini, giustizia e amore, restano in gran parte inconciliabili e la giustizia divina, a volte punisce chi in Terra aveva pur agito bene. Questa legge di Dio avrà sempre per noi qualcosa di misterioso, di insondabile e c’è una somiglianza perciò con la figura del giudice che forse è sempre tentato da una hybris incontrollabile e incrollabile.
Quindi l’amore, il perdono o la carità cristiana non possono essere formalizzate, e naturalmente non fanno parte del bagaglio del giudice, ma Sciascia, che fu un grande spirito laico, pascaliano e giansenista più che volterriano, si autodefiniva “un ateo incoerente” e leggeva ogni giorno i Vangeli accanto ai suoi adorati maestri illuministi.
Sciascia era animato dell’idea che qualsiasi giustizia terrena, non temperata dalla pietà, assume un’atroce maschera della vendetta. E quindi andrebbe amministrata con equilibrio e prudenza accompagna persino da una dose di empatia, da un senso del tragico della condizione umana, con la consapevolezza che la verità è sempre pirandellianamente sfaccettata.
Il grande scrittore affermava che mettere paura a un essere umano, solo e inerme, è la cosa peggiore che si possa fare.
Scrisse persino una lettera colma di paradosso all’allora Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, in cui propose di far trascorrere a ogni futuro giudice tre giorni dentro un carcere.