Il”Visconte dimezzato” di Italo Calvino riflesso dell’incompletezza umana

L’altra sera guardando il film “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino, candidato all’Oscar, una scena, in particolar modo, ha attirato la mia attenzione: “non ti disunire!” urla più volte il regista Antonio Capuano a Fabio Schisa, adolescente protagonista del film. Fabietto, così lo chiamano, intrattiene una chiacchierata con l’artista a cui confida di voler fare cinema, ma non capisce il ripetuto comando e chiede spiegazioni. Mentre si avvicina l’alba, di fronte al mare, arriva la risposta: per raccontare bisogna essere sinceri e onesti con il proprio dolore, la sola cosa che abbiamo da dire e la sola cosa che ha da raccontare Fabio.
In questa scena vi è la condizione che viviamo ogni giorno: la nostra disintegrazione interiore e, di conseguenza, la nostra disunione esteriore. Siamo soggetti divisi individualmente e socialmente, i cui pezzi sono i ritratti delle nostre vite, della nostra società. Ogni cosa sembra essere polarizzata in comportamenti e atteggiamenti di rigida contrapposizione ideologica e morale, come il tifo delle squadre calcistiche. Tutto si scandisce in destra e sinistra, atei e credenti, vax e no-vax, in chi sostiene la Russia e in chi l’Ucraina, facendo riferimento agli eventi recenti. In questo essere divisi non possiamo non rispecchiarci nel protagonista del romanzo Il visconte dimezzato di Italo Calvino. Il primo di una trilogia che Calvino intitolerà I nostri antenati, che rappresenterà, come ci riferisce proprio lo scrittore, un percorso «su come realizzarsi esseri umani: nel Cavaliere inesistente la conquista dell’essere, nel Visconte dimezzato l’aspirazione a una completezza al di là delle mutilazioni imposte dalla società, nel Barone rampante una via verso una completezza non individualistica: tre gradi d’approccio alla libertà…».
Nel romanzo Il visconte dimezzato, il protagonista Medardo, giovane conte di Terralba, partecipando alla guerra contro i Turchi, nel XVIII secolo, viene spezzato in due da una palla di cannone, le due metà sopravvivono nel Gramo e nel Buono. Calvino non narra le caratteristiche del bene e del male che si mescolano nell’uomo, ma la sua faticosa ricerca di completezza. Da un lato c’è la bestia, il Gramo, che tutto taglia, gli altri e il mondo, dall’altro c’è il Buono, che tutto aggiusta, gli altri e il mondo. Entrambi impongono alla realtà il loro modo di essere: il Gramo vuole rendere tutti cattivi, il Buono vuole rendere tutti buoni, entrambi ignorando l’altro nella sua realtà e libertà. Una guerra interiore che ci spezza, ci divide, ci rende impossibile essere noi stessi e rapportarci alla società in maniera sana, ma che al contrario frantuma la società a quelle semplificazioni a cui facevo riferimento prima (destra e sinistra, atei e credenti, vax e no-vax…). Semplificazioni con cui «organizziamo» il mondo, dividendolo in buoni e cattivi, puri e impuri, che nasconde l’incapacità di ascoltare l’altro con la sua storia, cosa che richiede tempo e assenza di pregiudizi.
A conclusione del romanzo le due metà di Medardo, dopo aver esasperato Terralba con i loro eccessi, finiscono a duello. Entrambi si feriscono mortalmente sul lato «tagliato», riaprendo le ferite, ma proprio questo consente a un dottore di ricucire le due parti: Medardo si salva e scopre che l’unica cosa che avevano in comune le sue metà è l’amore. Sia il Gramo sia il Buono si erano, infatti, innamorati della stessa donna: Pamela. È l’amore ad essere forza unificante, ad avere il potere di unire lo spirito e la carne in modo completo.
Il Fabietto di Sorrentino può essere identificato in parte con il Medardo diviso di Calvino, ma l’onestà sul suo dolore, necessaria al protagonista per non disunirsi e poter raccontare storie, è intrinsecamente legata all’amore. Il dolore, che ci divide e spezza, ci porta all’amore che ricuce le nostre ferite.
In realtà, l’incompletezza è propria del nostro essere uomini; siamo noi a fare la guerra a noi stessi e a trasferirla sul mondo e sugli altri. Ci si crede incompleti perché lo si è. E l’amore inizia da questa incompletezza, che ci spinge a sentire il bisogno di amare e lasciarsi amare. In fondo, credo che il “non ti disunire!”, urlato più volte dal regista Antonio Capuano a Fabietto, significhi proprio “non temere di amare”.