Scene da un matrimonio

Regia di Hagai Levi, con Jessica Chastain, Oscar Isaacs. USA, 2021 (284’). Tratto dall’omonima serie televisiva di Ingmar Bergman (1973). In streaming su Sky e Now Tv
Hagai Levi, per intenderci, è l’autore israeliano che ha inventato “In Treatment”, una serie (che ha avuto anche un’edizione italiana con Sergio Castellitto nel ruolo principale) basata sulle sedute tra uno psicoterapeuta e i suoi pazienti, episodi avvolgenti e coinvolgenti basati esclusivamente sul dialogo tra due persone. Questo spiega, almeno in parte, come mai Daniel Bergman, nipote del celebre regista svedese, si sia rivolto a lui per fare un remake del capolavoro del 1973 interpretato da Liv Ullman e Erland Josephson.
Confesso che avevo qualche (neanche tanto piccolo) pregiudizio prima di vedere la miniserie di Levi, perché in genere sono troppo affezionato agli originali per poter apprezzare rifacimenti e sequel vari. Ad esempio ho rivisto di recente “La finestra sul cortile” di Hitchcock e ricordo ancora con orrore di essermi sottoposto alla visione del remake fatto con Cristopher Reeve protagonista al posto di James Stewart. E però, riandando alla filologica operazione che Gus Van Sant ha fatto su “Psycho”, mi sono detto che sì, Levi meritava lo sforzo di sedersi sul divano per le quasi cinque ore di film sui rapporti tra Mira e Jonathan, che rivisitano, con qualche piccolo necessario aggiornamento, quelli tra Marianne e Johan di cinquant’anni prima.
Quindi devo dirlo, complice anche il fatto che non ho più ricordi vivissimi dell’originale (che mi propongo di rivedere comunque a breve), la miniserie di Hagai Levi colpisce nel segno sia per la capacità di riprodurre la crisi di quel sistema di incomunicabilità che è la coppia, sia per la rappresentazione che ne danno i due bravissimi protagonisti, sia per il rinnovamento dei rapporti di forza tra uomo e donna, ma anche tra convivenza e desiderio, stabilità e matrimonio, passione e trasgressione. In qualche modo, spostando l’asse del tradimento dall’uomo alla donna, e concentrandosi meno sul divorzio (non sono più gli anni settanta) e più sull’impossibilità di lasciarsi per sempre dopo la firma sulle carte del tribunale, Levi e i suoi attori ci consegnano una interessante rilettura del capolavoro bergmaniano, nato allora anche da una riflessione sulle sue esperienze personali. Mira e Jonathan si scambiano epiteti e rancori, si lasciano e si ritrovano, si scambiano i ruoli (di chi accusa e chi è accusato), ma non riescono a trovare la strada che permetta loro di fare a meno l’uno dell’altra. In qualche modo, da qualche parte, quell’ancora di salvezza da sé che li aveva portati al matrimonio (quello che da giovanissimi aveva consentito loro di realizzarsi sostenendosi a vicenda) è ancora lì, da qualche parte, e chiede a gran voce di essere tenuta presente. E i due attori sono eccellenti nel riprodurre i sottili cambiamenti dell’umore, nell’approfondire le psicologie dei personaggi, nel caricare di senso anche il più piccolo e apparentemente insignificante gesto. Come lo è il regista, capace di mostrarsi, all’inizio di ogni capitolo con la macchina del cinema in bella evidenza (lui e lei attori sul set che, improvvisamente, diventano Mira e Jonathan), e di sottrarsi poi, magicamente, fin quasi a far sparire la sua mano lasciandoci alla realtà dei sentimenti e del loro infinito contrasto. Come i colori tenui dell’ocra dell’appartamento che virano nell’ultima parte a una luce azzurra più asettica, ma mescolandosi sempre a toni più caldi, come le immagini dei titoli di coda che mostrano – anche qui – l’asettica quotidiana routine delle ville a schiera, delle sue cancellate e dei suoi prati con l’innaffiatoio automatico. Una immagine che, riteniamo, sia stata rubata non senza intenzione a Lynch che l’aveva rubata (guarda un po’…) a Hitchcock. Buona visione!
Voto: 8½