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La guerra al cinema

“Paths of glory lead not but the grave”, da questa frase del poeta inglese Thomas Gray il regista Stanley Kubrick aveva tratto il titolo del suo film “Paths of Glory” (”Orizzonti di gloria” nella versione italiana) interpretato da Kirk Douglas, del 1957.

“I sentieri di gloria non conducono che alla tomba”: un monito per tutte le guerre, sia quelle fratricide fra popoli divisi dalla religione, sia quelle decise (stavolta sulla testa delle popolazioni) da interessi economici e politici o da tiranni in delirio di onnipotenza.

Il cinema, sin da quei capisaldi del 1930 che sono “All’Ovest niente di nuovo” di Lewis Milestone e “Westfront 1918” di Georg Wilhelm Pabst, cui seguì nel 1937 “La grand illusion” di Jean Renoir, ha preso le distanze dalla guerra. L’ha etichettata come follia, l’ha descritta nella sua tragedia di giovani soldati sconosciuti costretti ad uccidersi senza motivo, ne ha mostrato l’inutilità, i danni, le stragi, i centinaia o migliaia o milioni di morti innocenti, ma tutto questo non è mai servito di monito, non ha sortito nessun effetto di lungo periodo nella coscienza della gente. Sì, all’uscita del film, e nei giorni seguenti, l’impatto drammatico delle immagini aveva mosso l’animo degli spettatori, e i film citati, nonostante i dubbi dei produttori e la censura del tempo, sono rimasti nella memoria del pubblico al punto da rappresentare, tutti insieme, una pietra miliare del cinema antimilitarista. Ma, al contempo, esiste un filone del cinema di guerra teso ad esaltare pericolosamente le gesta belliche, ad infiammare gli animi con l’eroismo, a dividere lo schermo in buoni e cattivi, o addirittura cattivissimi. E’ un cinema anche di propaganda, o più semplicemente un cinema ingenuo, che non approfondisce, che non analizza le cause delle guerre, che invita solo a parteggiare per l’uno o l’altro dei contendenti dimenticando che la ragione non è mai da una parte sola e che i popoli, di ognuna delle due parti, sono sempre vittime. Non esiste una guerra giusta, sia che i comandanti pensino più alle medaglie da apporre sul petto che ai risultati delle azioni suicide cui costringono i loro soldati (è il caso del film di Kubrick del 1957), sia che gli stessi soldati e ufficiali si immolino in azioni eroiche come in “Hamburger Hill” o “Il ponte sul fiume Kway”. Come nuovamente e efficacemente Kubrick mostrò nel 1987 con “Full Metal Jacket”, la guerra è insensata e inefficace da qualunque punto di vista la si guardi. E anche se lì si prendeva ad esempio il Vietnam (come in “Apocalipse Now” di Coppola, come in “Platoon” di Oliver Stone) l’insegnamento è generale. Non possiamo che confermarlo alla luce dei fatti drammatici di questi giorni: l’escalation delle armi non fermerà la guerra, solo le popolazioni possono farlo ribellandosi a chi la guerra la vuole.

E, per concludere con una citazione da un film di Totò: “Il denaro fa la guerra, la guerra fa il dopoguerra, il dopoguerra fa la borsa nera, la borsa nera rifà il denaro e il denaro rifà la guerra…”

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Rosario Lizzio, nato nel '58, da giovanissimo viene folgorato dalla passione per il cinema e, al V ginnasio a Giarre, inizia a tormentare compagni e amici con cineforum su Pasolini, Bergman, Truffaut, Kubrick e altri autori contemporanei. Dal 1979 al 2002 gestisce un cinema d'essai e un'arena estiva a Catania, ospitando registi e attori e realizzando varie rassegne molto seguite. Scrive anche sulla pagina degli spettacoli de La Sicilia, realizza corsi di formazione e poi insegna per cinque anni "Storia e critica del cinema" all'Università di Catania. Per dimostrare di conoscere altro al di fuori dei film, si occupa di migranti (al C.A.R.A. di Mineo), di video, comunicazione, siti web, giornalismo e scrittura. Per la sceneggiatura del film "The Wait" vince un premio al 49° World Fest di Houston. Ultimamente di lui non si hanno più tracce nella vita mondana catanese.
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