Quello che non vogliamo essere

Sull’orlo di una guerra. Tra l’emergenza sanitaria, la crisi socio-economica che mette a repentaglio tutte le democrazie, occidentali e non, la stretta sulla guerra fra Ucraina e Russia appare sempre più preoccupante, oltre che pericolosa. Di fatto, lo scacchiere internazionale sta modificandosi sotto i nostri occhi senza che ce ne accorgiamo. Ora, più che mai, si sottolinea l’importanza della diplomazia e si cerca di arginare gli inestimabili danni provocati da una guerra, non solo sotto il punto di vista strutturale ed economico, ma da quello di vite umane. Ma chiediamoci: siamo davvero consapevoli di cosa significhi una guerra? In un mondo globalizzato come quello di oggi, dove le notizie corrono, si mescolano le une con le altre, molto spesso diventando notizie senza alcun fondamento, il sentore di una guerra abbatte tutto: mercati, stabilità e ripresa. Non dimentichiamo: una guerra la stiamo ancora combattendo, gli uni lontani dagli altri. Se non si riesce a quantificare quanto di orrendo una guerra possa portare forse non siamo pienamente consapevoli di quello che vogliamo essere. I due conflitti mondiali all’inizio e a metà del secolo scorso erano già molto diversi da loro. Dopo la Grande Guerra venne creata la Società delle Nazioni, sul cui solco è nata l’ONU a seguito della Seconda Guerra Mondiale. Due guerre, dicevo, che fra di essere presentano profondi cambiamenti ma incredibili somiglianze: voglia di ricostruzione, bisogno di pace e sentimento di ripresa. Uomini come Wilson, lungimiranti, oserei dire premonitori, avevano già capito il bisogno di arginare al massimo la grande conflittualità che da sempre ha abitato l’Europa. Un continente ricco di storia che è venuta a formarsi proprio per la grande lotta tra i vari regni prima e i totalitarismi poi. Un quadro geopolitico che è andato delineandosi sempre di più nel corso dell’ultimo secolo, con la continua crescita di organizzazioni (ONU, NATO) e la fondazione di un sistema economico-sociale-politico destinato a reggersi, oltre che regolarsi, a seconda delle mosse delle due superpotenze, Russia (prima URSS) e USA con l’avvento della Cina e di altre nazioni emergenti, quali l’India.
Ma allora, stiamo diventando davvero (o forse non ne abbiamo mai perso il tratto) dei cosiddetti “guerrafondai”? Da anni sentiamo dire che l’Unione Europa ha garantito anni di pace, specie dal termine della Guerra Fredda. Ma qual è il sentimento democratico che deve prevalere, in questi casi? È bene ricordare: l’Articolo 11 della Costituzione Italiana, in vigore dal ’48, dichiara il ripudio della guerra, lei, che della guerra è figlia. Attenzione: i padri costituenti utilizzarono per una ragione ben precisa proprio il termine “ripudio”. Non rifiuto, non rinnega, non sconfessa (benché siano essi tutti dei sinonimi). Il termine è proprio ripudio che, nel senso stretto della parola, rimanda a noi tutti un grande e profondo sentimento di distacco, di una pragmatica presa di posizione contro ciò che provoca più danni che benefici. Di qualcosa, lo sappiamo bene, che distrusse l’Italia, la ridusse in macerie, in resti. In questi casi, allora, la scelta democratica tra diplomazia e guerra non può che essere prioritaria sulla prima, quella che si compone di dialogo, rapporti e relazioni internazionali, oltre che di profonda abilità politica e dialettica, attraverso ambasciatori e funzionari.
La situazione fra Russia, Ucraina e Nato, probabilmente, non si risolverà per niente nel modo in cui speriamo. Ma che la strada per la diplomazia debba rimanere sempre dominante, come se fosse un’unica luce in fondo al tunnel, è assodato e presto detto. La guerra distrugge. La guerra uccide. La guerra ci rende quello che non vorremmo essere, ma che, purtroppo, da esseri animali dotati di ragione ed intelligenza, ci costringiamo di dover essere.